Mi rivedo ogni tanto seduto in mezzo ai vecchi banchi di scuola, ancora con il buco per il calamaio, e penso a certe logiche di ripetitività cui eravamo costretti alle elementari. Mi riferisco alla scrittura quasi compulsiva per imposizione delle lettere in bella copia. Era un modo per acquisire, una volta per tutte, una manualità. Non so se nel mio caso l’esercizio sia stato fruttuoso: la mia singolare calligrafia la vedete nelle parole sopra il Blog che state leggendo. Oggi scrivo molto, compreso questo testo, sulle note del mio IPhone, almeno sino a quando potrò leggere caratteri piccoli senza occhiali. Però, in molti casi, ad esempio per scalette di interventi in pubblico o elenchi di cosa da fare mi affido alla mia rozza ortografia. E, se devo firmare una lettera ufficiale, non dimentico mai un incipit manuale.
Oggi nell’insegnamento la scrittura latita. Noto che, oltre all’oralità delle interrogazioni alla cattedra sostituita da test a crocette, in gran parte sono scomparsi i temi, quelli che da bambini iniziavano con il rituale “svolgimento”. Immagino che in un caso e nell’altro ciò deriva in larga parte dalla scelta di evitare contenziosi con i genitori sempre più protestatari e sempre dalla parte dei figli e non degli insegnanti, anche quando i pargoli hanno torto marcio. Si vuole evitare l’accusa di parzialità di giudizio e le crocette sono l’ideale per sembrare equanimi.
Sulla scrittura leggevo l’ottimo Marco Belpoliti, scrittore e italianista, su Repubblica: “La calligrafia non viene più insegnata nelle scuole elementari italiane dal 1985. Da obbligatoria è diventata opzionale, così molti docenti non vi si dedicano più. Del resto, tanti bambini entrano in prima sapendo già scrivere o così credono: lo fanno ricorrendo alle maiuscole. Imparare a scrivere non è facile.
Prima dei 5 o 6 anni è raro che un bambino riesca a farlo in modo adeguato, poiché tra l’omero e il pollice ci sono 29 ossa il cui coordinamento è un effetto progressivo dello sviluppo delle attività psico-motorie. Per questo ai piccoli, che in età prescolare impugnano una matita o una penna a sfera per imitare gli adulti, viene più facile la scrittura maiuscola. Così avviene, come ha riscontrato Bianca de Fazio scrivendo delle scuole italiane, che l’assenza dell’apprendimento del corsivo riduca le capacità cognitive dei ragazzi”. E ancora: “Come sanno gli allievi delle scuole steineriane, Waldorf, frequentate nella Silicon Valley dai figli dei dipendenti delle industrie tecnologiche, scuole in cui ogni strumento di scrittura e lettura elettronica è bandito, le attività manuali come la scrittura corsiva, il lavoro a maglia o l’intarsio del legno favoriscono le capacità cosiddette problem solving”.
Mia moglie mi sfotte spesso, perché non ho fatto le materne (oggi scuole dell’infanzia) e dunque secondo lei mancherei di alcuni aspetti pratici che lì avrei appreso per sempre. Tant pis, come si dice in francese.
Ancora Belpoliti: “Ci sono studi che dimostrano che imparare l’alfabeto a mano manifesta una maggior memoria rispetto all’orientamento delle lettere, e si apprende a leggere con più rapidità riconoscendo le lettere in anticipo. Perché? Lo spiega Roland Barthes in Variazioni sulla scrittura (Einaudi): la scrittura impegna l’intero corpo ed è una esperienza singolare, unica. Ogni scrittura è diversa dall’altra, e scrivere non è solo una attività tecnica ma implica una pratica corporea di godimento. Maria Montessori suggeriva ai maestri d’iniziare sempre con le forme rotonde. Certo imparare a scrivere in corsivo — il corsivo in uso nelle scuole italiane è il “corsivo stile inglese” — non è agevole e implica fatica, tuttavia comporta effetti positivi: si armonizzano meglio le attività manuali e intellettuali. L’abolizione della pratica calligrafica non è, come si crede, il necessario portato della modernità. In un suo libro la calligrafa Francesca Biasetton (La bellezza del segno, Laterza) ha fatto notare che parliamo di calligrafia come se fosse una unica pratica, mentre si tratta di tre realtà diverse: la scrittura a mano che s’apprende a scuola; la scrittura a mano educata, ora scomparsa nelle aule; la calligrafia che è arte conquistata per lo più da adulti con un addestramento specifico”.
La mia scrittura è, come per tutti, una parte di me, come le impronte digitali o l’iride dell’occhio e sarebbe un peccato che scomparisse un giorno questo nostro segno distintivo. Più avanti Belpoliti ammonisce: ”La perdita della parte tattile delle nostre azioni quotidiane, a causa della pervasività delle tecnologie visive, ci rende meno recettivi, e meno abili, nelle interconnessioni neuronali. Barthes ha scritto che la scrittura è dalla parte del gesto e mai del volto. A fronte delle immense possibilità cognitive offerte dalle tecnologie, quello che stiamo perdendo è prima di tutto il senso dello spazio, quello di essere dei corpi che si muovono in una estensione che non è una stanza o un appartamento, ma la superficie del mondo aperto intorno a noi com’è stato per migliaia e migliaia di anni per i nostri predecessori. Uno studioso di geometria scomparso di recente, Narciso Silvestrini, ha detto una volta che la nostra scrittura somiglia al nostro modo di camminare: con entrambe noi creiamo delle cicloidi. Se si potesse collegare alle nostre gambe un pennino e vedere il tracciato che facciamo mentre camminiamo, si scoprirebbe che il segno che rilasciamo è molto simile a quello che produciamo con le nostre mani: scrivere e camminare sono due attività profondamente collegate ed entrambe fanno bene al pensiero”.
I bambini di oggi, quando sono sprofondati nelle play station o nei telefonini, perdono la cognizione dello spazio, del tempo e - ahimè - della socialità con una forma nuova di solitudine.