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03 apr 2024

Traccheggiare

di Luciano Caveri

C’è un verbo che esprime bene un modo di vivere che aborro. Si tratta di “traccheggiare”, che sarebbe “cercare di guadagnare tempo o di mandare per le lunghe, talvolta affannandosi, per rimandare una decisione o un impegno”. Ne ho visti nel mio lavoro da giornalista e da politico.

Sul prezioso sito “una parola al giorno” si spiega bene:”Messa davanti alla richiesta che non può ignorare ma a cui non vuole dar seguito, l’amministrazione traccheggia; traccheggia il bambino quando gli si chiede di rimettere a posto camera sua; e traccheggio cercando una soluzione mentre ho fatto intendere di averla già trovata”.

E si legge ancora: “Il traccheggiare ci si presenta con una sfumatura famigliare: è un termine che si presta meglio a quei contesti in cui il costume e la misura possono cedere il passo a esigenze espressive. Ma non c’è niente di volgare — anche se c’è tutto di popolare. Già perché questo verbo è un’onomatopea romanza. Questo vuol dire che è un termine fonosimbolico, in cui il suo stesso mero suono è chiamato a rappresentare un significato — peraltro piuttosto astratto, non siamo davanti al miagolare del gatto, al gloglottare del tacchino. E quell’aggettivo ‘romanzo’ vuol dire che non si tratta di una suggestione locale, ma di un’associazione che si è estesa nell’ambito delle lingue nate dal latino. Si fonda sulla sequenza tric-trac o tricche-tracche, che rappresenta un movimento senza costrutto, un’oscillazione che non porta da nessuna parte. Il traccheggiare ci consegna tutta la sobbalzante, strascicata, indaffarata, magari perfino rumorosa inutilità degli atti di chi prende o perde tempo per non compiere una decisione, o per evitare di doversi impegnare in altro. È un termine messo a punto nei secoli (è del XV secolo) dall’orecchio assoluto di popolo, e ancora oggi una risorsa delle più brillanti e simpatiche del suo arcipelago”

Si possono usare anche opportuni sinonimi, come temporeggiare, tergiversare, indugiare, nicchiare. Esiste poi un modo di dire, quel “menare il can per l’aia”, che ha due spiegazioni che pure divertono, come ricorda la Treccani “menare il can per l’aia”, che vuol dire tirare per le lunghe senza concludere: “Il nostro modo di dire si basa su una metafora tutt’altro che perspicua nella nostra moderna società industriale (o, piuttosto, post-industriale): si riesce ad afferrarne il senso solo facendo un tuffo nel passato di un mondo contadino – quello anteriore alla meccanizzazione delle attività agricole – che non c’è più e che sopravvive al limite nelle rievocazioni di sagre di paese o manifestazioni simili. In esso è infatti implicito un riferimento all’operazione di battitura del grano, finalizzata alla separazione dei chicchi dalla pula, un tempo effettuata distendendo i covoni sull’aia e facendovi passare sopra gli animali pesanti della fattoria, in genere i buoi (bendati, perché non mangiassero i chicchi spulati). Menare (cioè ‘condurre’) lungo l’aia, per lo scopo detto, un animale di piccola stazza come il cane non sarebbe quindi servito a nulla, se non a perdere (e quindi prendere) tempo”.

Oppure: “Una spiegazione alternativa dell’origine dell’espressione è suggerita dall’erudito fiorentino Anton Maria Salvini (1653-1729), che accosta menare il can per l’aia al proverbio l’aia non è luogo per cani da caccia L’accostamento è presto spiegato: l’ambiente “naturale” di attività dei segugi è il bosco, dove tra alberi, arbusti e cespugli si nascondono lepri, fagiani, quaglie, ecc.; pertanto slegare un cane da caccia nell’aia, dove non ci si può aspettare di trovare selvaggina, risulta una mera perdita di tempo”.

Eppure, pressoché quotidianamente, mi rendo conto che in troppi si sono dati questa filosofia di vita. Siamo nel mondo del “un attimino”, che scolpisce un atteggiamento. Oppure: “adesso faccio” e in quel “adesso” c’è tutto, perché è il segno tangibile di quanto non fatto a tempo debito. Quando ero giornalista, c’erano notizie che andavano trattate ancora calde e vedevo colleghi che perdevano l’attimo, perché li vedevo privi di passione. Figurarsi in politica e il nervoso di vedere scelte che devono essere fatte, che si impantanano in discussioni stucchevoli e nella logica pessima del rinvio ad altra data. Queste perdite di tempo non fanno per me.

Sarà pur vero che la fretta è una cattiva consigliera, ma l’opposto è ben peggiore. Il grande giurista e politico Piero Calamandrei ammoniva: “Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa’ “.