L’arte della conversazione mi ha sempre interessato. Come comportarsi, in un incontro ufficiale o in un dialogo amicale, per mantenere viva il discorso?
Quale tecnica o quale predisposizione naturale spinge verso una buona riuscita di quel trovarsi insieme che dovrebbe essere un fondamento della società civile?
Il tema è serissimo e mette assieme molti elementi: la psicologia sotto diverse forme, l’educazione intesa come bon ton, il cerimoniale che tocca la sfera più pubblica e anche interessi e sentimenti vari, secondo le circostanze. Se devi intrattenerti con un Ministro per risolvere una questione conviene studiarne il background e magari informarsi su amicizie o interessi comuni. Poi, dopo le prime battute, capire quando andare al sodo delle ragioni dell’incontro e verificare, in modo strategico, quando cercare di guadagnare dei punti per trovare soluzioni, se possibile simpatizzando.
Ma la conversazione ha occasioni più intime, che sia il cerchio familiare che non sempre è così facile per la sedimentazione di reciproci rapporti nel bene e nel male. Oppure ha a che fare con il giro di amicizie e le chiacchiere finiscono per essere una sorta di cartina di tornasole, che consente di capire lo stato e la qualità dei rapporti reciproci e anche in questo caso il destino del momento vissuto passa attraverso il feeling che si manifesta.
Si passa dal top di momenti memorabili alla fossa delle Marianne di situazioni terribili da cui non si vede l’ora di scomparire e il solo aspetto buono sta nel fatto che il peggio più del meglio diventa materiale per la propria aneddotica.
Ha scritto Michel de Montaigne: “L’esercizio più fruttuoso e naturale per le nostre menti è, a mio avviso, una conversazione”.
Ma sulla pratica non si può che convenire con una osservazione arguta di André Maurois: “La conversazione è un edificio che si fabbrica in comune. Gli interlocutori debbono metter avanti le loro frasi pensando all’effetto d’insieme, come i muratori mettono i loro mattoni”.
Ma l’impressione è che esista una crisi profonda nella comunicazione e il nemico assoluto, arma di distrazione di massa della socialità e dello stare insieme, è il telefonino e la sua malia e la parola è scelta con cura semantica. Per malia, infatti, si intende la pratica magica con la quale, nelle credenze medievali, si pretendeva di assoggettare la volontà altrui o di recare danno a persone o cose.
È il telefonino, pieno di utilità e di applicazioni, ha però un suo lato oscura, quando impedisce la conversazione o la riduce talvolta ad un dialogo fra sordi con interlocutori che armeggiano e sbirciano il proprio apparecchio, spezzando quella magia buona che si crea in dialoghi ben riusciti fra esseri umani che si confrontano fra loro. Per non dire di una suoneria che spezza qualunque momento conviviale o il trillo di una messaggeria che si insinua maleducatamente.
Ha scritto Paulo Coelho e come non seguirlo: ”Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano”.
Non a caso si dice faccia a faccia per ricordare come l’intimità, i gesti, le espressioni (su cui spiccano gli scritti del celebre etologo Desmond Morris) siano un elemento essenziale nelle conversazioni, così come il sorridere, il ridere, l’ammiccare e persino il cantare, se penso ad una bella tradizione di noi montanari, che mi pare tristemente attenuarsi.
Per questa ricchezza così bella e varia nella nostra umanità bisogna non perdere il gusto della conversazione come caposaldo dei rapporti, oggi spesso fattisi virtuali, snaturando così la nostra natura più profonda.