Sul bicameralismo perfetto - cioè la totale equivalenza fra Camera e Senato - si è discusso a lungo in occasione della riforma costituzionale voluta da Renzi e bocciata dagli italiani attraverso il referendum confermativo.
Quella riforma non mi piaceva anche perché sceglieva il monocameralismo e votai contro anche per questo e difesi, in qualche incontro pubblico, il tradizionale bicameralismo italiano, che ha un fil rouge evidente nel passaggio fra i Savoia e la Repubblica italiana.
Come spesso accade, la realtà ha sopravanzato le riforme e in questi ultimi anni piano piano il bicameralismo si è sfaldato e ormai la prassi è che uno dei due rami del Parlamento esamini un provvedimento di legge, su cui spesso il Governo pone la fiducia e dunque si vota in blocco, mentre l’altro ramo, nella logica “prendere o lasciare”, lo approvi senza fare modifiche perlopiù con lo stesso meccanismo della fiducia.
I famosi decreti legge che dovrebbero essere legati ad una straordinaria necessità e urgenza, che sono per questo uno strumento governativo con successiva conversione in legge delle Camere, sono tornati ad essere pieni di materie varie e con il già citato abuso dello strumento della fiducia mettono il Parlamento in una situazione di totale soggezione rispetto all’Esecutivo.
Si svuota così la democrazia parlamentare e d’altra parte i vigenti sistemi elettorali con le candidature - e dunque la possibilità di essere eletto nelle mani più dei partiti che degli elettori - mettono i politici sotto scacco in una forma di obbedienza che poco ha a che fare con la logica di essere liberi anche nell’incidere sulla legislazione in sede parlamentare.
Partiti che in più si legano a leadership che sono talmente soverchianti da creare problemi seri di democrazia interna. Per altro i meccanismi di democrazia interna previsti dalla Costituzione sono sempre rimasti sulla carta e intanto la logica del pluralismo è stata schiacciata dagli eccessi di personalizzazione dei dominus, che pure ormai passano abbastanza in fretta di moda.
Per cui, visto il quadro come descritto, occupiamoci di quello che La Stampa ha chiamato ironicamente “sussulto di orgoglio parlamentare fuori tempo massimo”.
Ciò è avvenuto alla vigilia del voto definitivo del Senato sulla manovra finanziaria, prima del rompete le righe in vista del Capodanno. Ricordo che basterebbe programmare diversamente i lavori per evitare le maratone parlamentari in periodo natalizio!
Cosa è successo esattamente? A Palazzo Madama c’è stata la mossa a sorpresa di Guido Liris, senatore di Fratelli d’Italia e relatore della manovra, che ha rimesso il suo incarico durante la seduta mattutina della commissione. ”Dimissioni con richiesta – ha spiegato – perché ho chiesto al presidente della commissione di farsi mediatore perché non ci sia più la singola lettura parlamentare e perché si torni alla doppia lettura, che dal 2018 non è stata più fatta”. Per capirci meglio: se si comincia con voto e esame della Camera si andrebbe al Senato che ha lesamina e modifica per avere infine il voto finale senza modifiche della Camera.
In effetti, come ricordavo poc’anzi, è ormai consolidata la prassi, tutt’altro che virtuosa, secondo cui una delle due Camere sia costretta a ratificare la legge di bilancio in poche ore a ridosso di Capodanno, senza poter modificare una virgola del testo uscito dall’altra. Uno schema che si ripete a prescindere dal colore del governo in carica, con le opposizioni del momento che gridano contro la maggioranza, dimenticando di aver usato il medesimo schema di cui si lagnano. Questo in spregio al dettato della Costituzione. Con un certo aplomb il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha ammesso che il tema va affrontato così dicendo: ”La revisione dei meccanismi e anche delle regole è necessaria. Siccome la legge di contabilità bisogna riformarla comunque in base alle nuove regole europee, è già partito un lavoro preliminare. Ma è materia parlamentare, non di Governo”.
Della serie, buttando la palla in tribuna, tocca al Parlamento darsi da fare per riavere un ruolo.
Chi è finito nel mirino è il coraggioso Senatore Linis, che ha cercato fuori tempo massimo di aggiustare un pochino il tiro con un tardivo dietrofront. ma ormai aveva parlato e pare che le dichiarazioni abbiano innervosito l’inquilina di Palazzo Chigi. Chissà se mai questo medico abruzzese ritroverà un collegio per essere eletto la prossima volta…