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07 apr 2025

Gli occhi e gli sguardi

di Luciano Caveri

In una mattinata tranquilla, di quelle che raramente capitano, e avviene in più un momento di solitudine e in un ambiente confortevole e silenzioso, ho ragionato - pur apparendo bizzarro - sugli occhi.

Per cui, a premessa, adopero una frase utile per ragionare di José Saramago: “Ho passato la vita a guardare negli occhi della gente: è l’unico luogo del corpo dove forse esiste ancora un'anima”.

Non parlo, infatti, dei miei occhi , che sono oltretutto di un ordinario nocciola, e almeno per ora confortati da una vista abbastanza buona per un misterioso, per me, equilibrio fra miopia e presbiopia che mi consente di scrivere quanto sto scrivendo sul Notes di IPhone con caratteri piuttosto piccoli.

Ma piuttosto, primo punto, per gli occhi degli altri e, secondo punto, per la vista come possibilità di guardare il o al mondo. Sugli occhi da tempo coltivo la balzana impressione (che sia balzana lo dico da me) che - al di là di patologie, che non è il caso, e al di là del colore e della forma - sia facile distinguere una specie di “scintilla” negli occhi delle persone che incontro, quando ce l’hanno.

Mi boccio già da solo, perché questa idea somiglia - ahimè- a certe teorie lombrosiane ben illustrate nel Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, che si trova a Torino, in via Pietro Giuria 15, all’interno del Palazzo degli Istituti Anatomici, che è già un programma.

Ricordo che Lombroso sosteneva che il comportamento criminale fosse innato e riconoscibile attraverso caratteristiche fisiche. Secondo lui, esistevano dei “segni” somatici (come la forma del cranio, la mascella sporgente, orecchie grandi) che identificavano a suo dire il “delinquente nato”, una sorta di atavismo, ovvero un ritorno a forme primitive dell’uomo.

I criminali poi venivano tipizzati in diverse categorie. Le teorie di Lombroso sono state criticate e confutate, perché riducevano la complessità del comportamento umano a soli fattori biologici, ignorando l’influenza dell’ambiente sociale, culturale ed economico.

In più i suoi studi erano basati su osservazioni non sempre rigorose e prive di un vero metodo sperimentale. Molti esiti erano di conseguenza fantasiosi con conseguenze persino pericolose nella loro applicazione.

La storia della mia “scintilla”, cioè di un luminosità negli occhi, è altrettanto antiscientifica, ma innocua e pure del tuo priva di una presuntuosa teorizzazione. Insomma, un innocuo divertissement.

Ma dicevo della vista per guardare il mondo. In questa giornata con il cielo azzurro, le montagne valdostane ancora imbiancate e il verde che comincia a spargersi nel fondovalle penso, invece, allo sguardo che abbiamo.

E al rischio della routine di guardare in modo passivo alla bellezza di questo nostro scorcio di Alpi. Un’abitudine ci impedisce di stupirci di quanto siamo fortunati a vivere e a essere parte di una Natura di questo genere.

Lo leggiamo negli occhi di chi ospitiamo e che vede certe meraviglie con occhi nuovi e non assuefatti e come spenti senza più stupore e ammirazione.

In fondo è quanto diceva, molto meglio di me, Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.