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24 lug 2025

Quei formaggi da salvare

di Luciano Caveri

Qualche tempo fa, su di un giornale trentino ho letto un articolo dedicato a uno dei formaggi trentini più conosciuti a livello nazionale, il Puzzone di Moena (Spretz Tzaori in ladino, cioè Formaggio Saporito) dal suo odore penetrante.

Il tema è il nuovo disciplinare disciplinare che fa scomparire il latte crudo, che diventa “termizzato”, vale a dire che latte viene riscaldato sino a 64°C per un breve periodo, riducendo la carica microbica.

Nell’articolo emerge la polemica: “Puzzone di Moena di nome, ma non di fatto, ossia radicalmente diverso da quello prodotto con latte crudo e latte innesto con secoli di tradizione e storia alle spalle. In base al nuovo disciplinare per produrre Puzzone di Moena "deve essere utilizzato latte termizzato”.

Questo evita alcuni rischi da batteri patogeni, ma cambia la lavorazione tradizionale e mai più gusterò lo straordinario Puzzone che tanto mi è piaciuto.

Cambiamo scenario e parliamo nella nostra Fontina, che per le regole DOP deve essere prodotto - com’era per il collegaformaggio trentino-ladino - con latte crudo, ovvero latte non pastorizzato, cioè non sottoposto a trattamenti termici per eliminare i batteri. Questo tipo di latte conserva - questa la sua forza - tutta la flora microbica naturale, che contribuisce in modo determinante allo sviluppo del gusto e dell’aroma del formaggio. Ricordo che il latte crudo intero proviene da una sola mungitura di vacche di razza valdostana (pezzata rossa, nera o castana).

Ora Slow Food Italia su questo tema - essendoci in rischio di etichettatura allarmante per formaggi come la prelibatezza - scrive ad autorità nazionali e regionali.

Ecco la lettera: “Vi scriviamo fortemente preoccupati per il futuro di molte aziende casearie italiane che producono formaggi a latte crudo. Le linee guida proposte dal Tavolo che si è riunito nei mesi scorsi presso il Ministero della Sanità per gestire il rischio da Escherichia coli STEC prevedono nuovi controlli analitici gravosi, sul latte e sui formaggi, al di là delle possibilità economiche di molti produttori, che diventano praticamente inattuabili per i produttori che alpeggiano a quote elevate, in località impervie o irraggiungibili con gli automezzi”.

Suona per noi come un campanello di allarme.

Prosegue la lettera: “Stiamo parlando di migliaia di produttori, la stragrande maggioranza di piccola scala: centinaia di questi produttori aderiscono a Consorzi Dop (28 delle 56 Dop/Igp italiane dei formaggi prevedono obbligatoriamente la produzione a latte crudo e molte altre Dop/Igp coinvolgono produttori chelavorano a latte crudo), circa 400 aziende appartengono ai Presìdi Slow Food, migliaia producono formaggi Pat (Prodotto agroalimentare tradizionale) e aderiscono ad associazioni di settore e comunità locali. Sono produttori che conservano saperi caseari artigianali sui quali si fonda la fama del nostro patrimonio gastronomico e sui quali si concentrano le speranze di futuro per le terre alte del nostro Paese (composto per l’80 % di montagne e colline): in gioco c’è una incommensurabile ricchezza, in termini di biodiversità, ecosistemi, razze animali, pratiche, conoscenze e produzioni casearie e la gestione ambientale delle aree interne, sempre più a rischio di spopolamento e dissesto idrogeologico. Luoghi curati da produttori e allevatori che vivono e lavorano da sempre in talicontesti.

Il 68% degli allevamenti italiani ha meno di 100 capi e alleva complessivamente solo il 18% del totale dei bovini da latte del nostro Paese: in 10 anni abbiamo perso una stalla su tre. I produttori di cui parliamo resistono, ma ogni giorno affrontano nuove sfide. Questo mondo sconta già i danni di immagine dovuti all’allarmismo che nell’ultimo anno ha preso di mira la totalità dei produttori di formaggi a latte crudo, dimenticando che le responsabilità sono soggettive, ben chiare e individuate dalla magistratura. Senza considerare che, sebbene i rilevamenti di Escherichia coli STEC siano in crescita negli ultimi anni in tutta Europa, l’Italia è tra i paesi meno colpiti, come dimostrano le tabelle di ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control). Si sta costruendo una impalcatura di controlli costosissimi su percentuali di rischio bassissime. Mentre sarebbe molto più importante puntare sulla formazione: per i produttori, gli allevatori, i consumatori. La comunicazione fatta finora sui media sta portando i clienti dei ristoranti a rifiutare i formaggi se prodotti “con latte crudo”. Sta già spingendo molti piccoli produttori a pastorizzare il latte, a scegliere di non caricare più le malghe, addirittura a chiudere. I consumatori devono essere informati con dati scientifici ma con toni equilibrati, senza cercare la notizia dove spesso non c’è, solo per fare audience, perché l’immagine di questo settore, così importante per il Made in Italy e fortemente collegato al turismo, si può facilmente incrinare, danneggiando per sempre un patrimonio gastronomico che ha attraversato i secoli.

Una volta chiusi una stalla o un laboratorio di caseificazione, una volta perso un bravo casaro, non c’è corso scolastico che possa rimediare. I saperi artigianali hanno bisogno di contatto, di continuità, di relazione per essere conservati e trasmessi. Nelle linee guida emanate dal Tavolo di lavoro presso il Ministero della Salute si richiede inoltre l’adozione di una frase in etichetta per dissuadere le categorie fragili dal consumare formaggi a latte crudo".

Ecco le conclusioni: “Le direttive europee non prevedono questa indicazione e quindi i formaggi di importazione non saranno tenuti a segnalare alcun rischio specifico: il potenziale danno commerciale per i formaggi a latte crudo italiani è evidente.

Ci chiediamo: perché questa enorme attenzione sul rischio STEC solo nei formaggi a latte crudo? Lo STEC si può ritrovare anche nei salumi, nelle carni crude o poco cotte, nelle verdure crude, neicereali, nelle farine, addirittura nelle acque. Perché queste filiere non sono state prese in considerazione e non si prevedono linee guida analoghe? Perché la Listeria, che ha tassi di mortalità più elevati, per ogni età e condizione, non è considerata almeno alla stessa stregua?

Perché non si tiene conto che un malgaro o un piccolo produttore non può spendere ogni giorno fino a 70€ per le analisi? Non stiamo sottovalutando il rischio per le categorie fragili, la comunicazione deve essere fatta. Noi contestiamo invece i toni allarmistici, l’intensità inspiegabile con la quale si sta investendo un settore produttivo che è già esausto a causa dei tanti adempimenti, a fronte di rischi molto ridotti rispetto ad altre fonti di contaminazione. Oltre al danno qualitativo e culturale causato dalla perdita di formaggi tradizionali a latte crudo, il passaggio alla pastorizzazione implicherebbe la diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti (un formaggio a latte pastorizzato può subire un calo del prezzo anche del 30%), i costi dell’energia necessaria per far funzionare i pastorizzatori triplicherebbe, servirebbe il doppio di acqua per raffreddare il latte, e di acqua ce n’è sempre meno”.

Slow Food aggiunge: “Come possiamo convincere i giovani a percorrere questa strada se allevare e produrre artigianalmente è ormai un percorso ad ostacoli? Se fare l’allevatore, il pastore, il casaro non è semplicemente un mestiere, ma diventa una scelta eroica? Non convinceremo così i giovani a tornare alla terra. La strada tracciata da queste linee guida porterebbe inevitabilmente a una sempre più gravosa standardizzazione dei prodotti e quindi del gusto”. Infine le proposte: prevedere più formazione per i produttori e gli allevatori sulle pratiche da adottare nella gestione della stalla e della mungitura e rimodulare le indicazioni così gravose e costoseconsigliate nelle linee guida; informare i consumatori non solo sui rischi ma anche sul valore del latte crudo, un valore che non è solo organolettico ma anche nutrizionale, impiegando poster e comunicazioni nei punti vendita; richiedere che la dizione “a latte crudo”, già obbligatoria per i formaggi fatti con il latte crudo, sia esposta con maggiore evidenza in etichetta (perché è un valore, innanzi tutto) evitare frasi che incutano timore sulle etichette: sarebbe l’unico prodotto alimentare che ne prevede avvertenze così forti, nemmeno i rischi legati alle allergie alimentari sono gestiti allo stesso modo”.

Insomma: una brutta storia.