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29 ott 2019

Ivana Meynet e la sua umanità

di Luciano Caveri

Sono rimasto colpito - non solo perché legata da una parentela con mia moglie - dalla morte di Ivana Meynet e ne scrivo qualche giorno dopo per scelta. Avevo conosciuto Ivana alcuni anni fa ed il caso aveva voluto che la sua bambina fosse nata, alla "Maternità" di Aosta, quasi in contemporanea con il mio bambino più piccolo. La perdita della mamma di una sua coetanea è una storia tristissima e profondamente ingiusta. Mi ha molto colpito il fatto che molte delle persone incontrate in questi giorni mi parlassero con trasporto e con partecipazione di questa perdita, che dimostrava qualche cosa in più della normalità di un lutto e per questo ho atteso: per la conferma di una sorta di onda che si è alzata nel ricordo. Oltretutto le circostanze della morte sono arrivate dopo una lunga ed invalidante malattia per un tumore che le era stato purtroppo diagnosticato tardivamente ed il decorso della malattia aveva costretto Ivana ad una terribile immobilità in un letto.

Un destino che addolora, pensando proprio alla ragione principale della sua popolarità, vale a dire per la sua carica umana e capacità professionale di accompagnare nell'ultimo tratto della loro vita le persone che si ritrovassero nell'"Hospice" dell'ospedale "Beauregard", purtroppo ultima tappa per chi ci entra. Certo, contava molto il fatto di essere stata una pioniera nelle cure palliative e dunque la professionalità nel suo mestiere sanitario, ma a questo si accompagnava - e questo è stato il tratto distintivo dell'affetto che l'ha avvolta sino alla fine e ora nel ricordo - un sorriso ed un sostegno morale ai malati terminali, ma anche ai parenti che si fragilizzano di fronte al cancro, alle trasformazioni che la malattia arreca ai loro cari ed al triste cammino che molte volte spezza ogni speranza. Quel che è capitato anche ad Ivana, che conosceva bene la sua malattia e che ha lottato contro questa avversità che l'ha strappata - come dicevo - ad una bimba piccola, a suo marito, ai familiari e agli amici, così come a quell'esercito di persone cui aveva dispensato del bene in un momento difficile della loro vita. Esiste qualcosa di più del senso del dovere ed è la capacità di empatia e simpatia verso gli altri, che è dire rara. Il tumore ha privato ciascuno di noi di persone care e lo vediamo agire spesso con ferocia inaudita a spezzare legami ed a colpire in modo cieco. Ma bisogna speranze nei progressi della scienza, che già hanno permesso grandi passi in avanti. Ha scritto Susan Sontag: «Non è il denominatore in sé a essere peggiorativo o rovinoso, ma il nome specifico "cancro". Fin quando una particolare malattia viene trattata come un predatore diabolico e invincibile, e non come una semplice malattia, quasi tutte le persone che ne sono affette non potranno che demoralizzarsi apprendendo di quale male soffrono. La soluzione non consiste dunque nel non dire più ai pazienti la verità, ma nel rettificare la loro idea della malattia, nel demistificarla». Aggiungerei un pensiero di Mimmo Càndito, grande inviato de "La Stampa", che ho avuto l'onore di conoscere: «Chi è malato di cancro vuole che si rompa la cortina di commiserazione che lo circonda, non accetta l'esorcismo pavido di chi non vuol mai usare la parola "tumore" e ripiega su "il brutto male"; non chiede pietà, e nemmeno l'insopportabile ipocrisia di chi dice "coraggio" e di nascosto fa gli scongiuri, vuole soltanto la comprensione d'un sentire comune perchè il tumore viene vissuto - da chi lo ha - come una malattia "sociale", qualcosa che non appartiene soltanto al malato ma fa parte d'una dimensione psicologica ed emotiva più ampia, che va anche al di là della cerchia familiare». Una dimensione che Ivana sapeva affrontare con pazienti ed il loro cerchio delle persone care e per questo, quando il cancro l'ha colpita e infine uccisa, c'è stato un mesto ricordo e tanto affetto. E lei ha dimostrato coraggio assieme alla sua umanità.