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21 mar 2020

Amici e nemici in epoca di "coronavirus"

di Luciano Caveri

Siamo abituati a dividere il mondo in "amici" e "nemici" e a cercare nelle parole una stampella per dare corpo alle nostre idee al modo di pensare. Parlando del "coronavirus" che si è insinuato nella nostra vita e colpisce in mezzo a noi e ci minaccia senza pietà, è evidente come sia lui il "nemico numero 1" con cui fare i conti ed è nostro dovere combattere questa battaglia mondiale, che qualcuno ha definito con enfasi la Terza guerra mondiale. Ma il nemico riguarda anche i rischi derivanti dai nostri comportamenti individuali: per fermare il contagio bisogna seguire disposizioni che sono pesanti per ciascuno, perché condizionano la nostra libertà, ma lo sono anche in una logica collettiva fra chiusure, divieti e l'evidente ricaduta sull'economia in generale e per molti sulle proprie finanze personali.

L'altro grande nemico è il fiorire di notizie false, che avvelenano un quadro già difficile e anche doloroso, quando si scoprono persone morte o malate che si conoscono o si seguono i reportage televisivi (permettetemi di dare un merito ai vituperati giornalisti, categoria cui appartengo), che talvolta fanno venire i brividi a pensare come si sia immanente e insidioso questo virus. E' bella l'espressione che usò Alessandro Manzoni - «trufferia di parole» - che si trova nel XXXI capitolo dei "Promessi Sposi", dove descrive la terribile epidemia di peste del 1630, che - lo ricordo - uccise quasi l'intera popolazione valdostana dell'epoca. Così scriveva, parlando dell'ignoranza del popolo, ma anche di medici e di autorità, che volevano nascondere la realtà dell'epidemia e perciò si inventavano untori che diffondevano la malattia, ma soprattutto negavano l'uso, come dovuto, del termine “peste”: «i medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto». Oggi non ci sono solo le chiacchiere, ma ci sono i "social" con quelle catene di Sant'Antonio di notizie false se non scientemente artefatte, devianti, sbagliate e tutto quanto di peggio si può definire. Virus anche loro, come il covid-19. E quali sono invece gli amici? I tantissimi che a tutti i livelli di responsabilità fanno il proprio dovere: da chi sta in casa a chi combatte in corsia, da chi informa correttamente a chi garantisce servizi essenziali. E' un esercito di formichine che si danno da fare e che tribolano nel quotidiano con la "spada di Damocle" della malattia e con le paure che sono del tutto logiche in circostanze come queste. Ma esiste un senso più generale di comprensione reciproca, che suona poi in realtà interessante per una sua evidenza. Siamo invitati a fare una vita introflessa dentro le nostre case con le nostre famiglie, ma dall'altra esiste un senso di fraternità e solidarietà, che è fatto non solo dal lavoro di chi non può vivere nel nido rassicurante della propria abitazione, ma anche dal tamtam di rapporti che i "social" consentono di mantenere fra di noi. Sulla "Fraternità" ha scritto Yannick Bosc dell'Università di Rouen, spiegando che questa parola, nel trittico con "Liberté" e "Egalité", fosse in origine come "formule de politesse" con la dizione "salutet fraternité", ma poi si afferma e già nel 1790 fu Robespierre a scrivere: «les gardes nationales porteront sur leur poitrine ces motsgravés: "Le Peuple Français" et, en dessous: "Liberté, Egalité, Fraternité"». Più avanti dice l'autore: «La notion de fraternité est en effet directement liée à celle de l'état social, c'est-à-dire, en des termes qui nous sont contemporains, à la manière dont nous "faisons" société». Ha scritto sul tema lo studioso e accademico Antonio Maria Baggio, riprendendo un articolo di Stefano Rodotà, ed osserva: «Questo confronto tra fraternità e solidarietà non è nuovo. Il tentativo di sostituire l'idea di fraternità con quella di solidarietà è presente nel dibattito politico francese della seconda metà dell'Ottocento. (…) In generale, lungo l'arco di due-tre decenni, l'idea di solidarietà si impose e venne presentata all'opinione pubblica come vantaggiosa rispetto a quella di fraternità; anzitutto perché poteva assumere, per la mentalità positivista del tempo, una apparenza di scientificità, come interprete dei legami oggettivi di interdipendenza esistenti tra gli uomini nella società, mentre la fraternità veniva inserita in un ambito più soggettivo e affettivo; sembrava, inoltre, più facilmente utilizzabile come principio giuridico, mentre la fraternità si faceva valere soprattutto come dovere morale; infine, ed è l'argomento presentato ancora oggi da Rodotà, la solidarietà permetteva - almeno apparentemente - di conservare i contenuti della fraternità, tagliandone però i suoi legami con la sfera religiosa dalla quale proveniva: sembrava prestarsi meglio, di conseguenza, ad ispirare un'azione civile e pubblica, di carattere non confessionale». Osserva più avanti l'autore: «Dire che la fraternità ha un legame con la religione è dire un'ovvietà. Ciò che ci deve interessare sono i contenuti culturali che queste idee di origine religiosa hanno trasmesso alle culture viventi, contenuti che si sono arricchiti e modificati nel corso delle esperienze storiche e che vengono assunti e vissuti indipendentemente dalla loro origine religiosa e dai sacerdoti, druidi o sciamani che ce li hanno trasmessi. Se le religioni dalle quali provengono i contenuti fraterni sono ancora vive e se esse continuano a nutrire la società con i loro contributi, questo costituisce un arricchimento, non un problema, dato che, nello spazio pubblico, gli elementi di fraternità vengono presi in considerazione per i loro aspetti civili e non per le eventuali motivazioni religiose che li producono». Certo rispetto alla Rivoluzione francese la fine non fu gloriosa: «La fraternità dunque cade; non perché sia, dei tre principi del trittico, il più fragile, come suggerisce Rodotà, ma perché cade il trittico intero: libertà, uguaglianza e fraternità avevano assunto significati nuovi proprio attraverso la loro relazione; una libertà fraterna non sarebbe mai degenerata nell'arbitrio della legge del più forte; né un'uguaglianza fraterna avrebbe prodotto sistemi sociali simili a carceri”». La conclusione è attuale: «La fraternità come categoria di pensiero nello spazio pubblico non è, dunque, una facile soluzione ai problemi politici attuali; ma è certamente uno dei luoghi nei quali cercare le soluzioni. Accantonare la fraternità e la sfida che essa rappresenta significherebbe rinunciare a guardare la complessità del nostro tempo, che ci chiede di uscire dalle eredità ideologiche che ancora ingombrano il campo della democrazia, per riuscire ad essere, insieme, sia liberi che uguali». Si uscirà da questa emergenza sanitaria in una situazione speranzosa ma difficile e contare su solidarietà e fraternità come eredità positiva su cui costruire il futuro rassicura. Ci sarà un domani.