Gli svizzeri hanno deciso: no ai minareti, cioè non potranno più sorgere quelle specie di campanili affusolati vicino alle moschee. La scelta, che ovviamente non incide sulla costruzione delle moschee in ossequio alla libertà religiosa, che è incisa nel Dna della Svizzera e nella sua Costituzione, ha aperto in tutta Europa una vasta discussione. In gioco non è il fatto preciso, ma la nettezza di un pronunciamento popolare su un tema che finisce per essere incentrato sui diritti degli emigrati (per noi "immigrati") islamici e sulla loro volontà di integrarsi nella società che li ha accolti.
Se la Confederazione elvetica si è trovata questo voto inaspettato dei suoi cittadini, ciò vuol dire che qualcosa nella convivenza con i "nuovi venuti" non ha funzionato.
L'argomento ci deve interessare, visto il numero crescente di emigrati di religione musulmana che vivono in Valle, spesso operando la scelta di domandare la cittadinanza e dunque di vivere da noi in modo stabile. Infatti la tipologia di famiglia non è più come un tempo un maschio giovane, piuttosto isolato in una rete corta di relazioni sociali, che veniva a lavorare per un certo periodo mantenendo famiglia e affetti nel Paese d'origine, ma si tratta di coppie prolifiche che danno vita qui a famiglie numerose con reti parentali e d'amicizia fitte che originano ad una società nella nostra società.
Noi, Paese d'accoglienza, abbiamo necessità - bisogna dirlo con realismo - di manodopera che controbilanci la demografia a "crescita zero" con pochi nati e sempre più vecchi che ci condannerebbe a bloccare varie attività, mentre loro, gli immigrati, cercano lavoro in un quadro di Stato sociale, di democrazia politica e di eguaglianza che nei loro Stati di provenienza - a variabile, ma sempre scarso, tasso di ricchezza e di libertà - se lo sognano.
Il punto di equilibrio sta nel rispetto reciproco e nei paletti da piantare per fare in modo che la convivenza non sfoci in un duplice razzismo: il nostro per loro e il loro per noi. L'integrazione, nello stesso modo, non può essere un movimento a senso unico, ma deve essere uno sforzo congiunto per capire che cosa noi dobbiamo cambiare per accoglierli e loro cosa devono dare per essere accettati.
Qualche esempio per capirci: "loro" hanno un'altra religione e devono essere liberi di praticarla, ma ciò non implica disprezzo per la nostra o atteggiamenti rivendicativi - del genere «il Natale non si festeggia nelle scuole» - che creano attriti ed incomprensioni. Altrimenti, ovviamente, può scattare una reazione del genere «perché devo sopportare che certe regole del "Ramadan" incidano sulla nostra organizzazione del lavoro». Se un nostro prete cattolico incitasse all'odio e alla violenza verso l'Islam finirebbe sospeso dal vescovo e sarebbe processato, la reciprocità vale anche per l'imam che predica nella moschea.
Sin qui niente di trascendentale. Il difficile viene sul piano dei diritti e dei doveri. Anche qui, per capirci, qualche esempio. Se le donne musulmane vogliono portare il velo, nessun problema, ma se vogliono coprirsi il volto in pubblico (e la scala della copertura varia sino a quello strumento di tortura che è il "burka") c'è un limite che inerisce il punto di equilibrio culturale all'origine della necessita d'integrazione. Infatti, se valesse il principio di riconoscimento di tutte le differenze nel nome del relativismo culturale, allora dovremmo accettare certe mancanze di libertà per le donne, anche qui in una scala che va da una mancanza di parità a salire sino a pratiche barbariche come l'infibulazione.
Le regole costituzionali che noi e l'Europa definiamo come "fondamentali" non sono derogabili. Nessuno discute, ad esempio, sulla legittimità di tenere conto del rispetto delle loro festività religiose, su alcune regole alimentari (carne di maiale o alcool) o tecniche di macellazione. Ma ovviamente nessuno può pretendere di far sparire i salami o il vino dalle nostre feste popolari.
La chiave giusta è quella di mantenere sempre aperta la strada del dialogo, sapendo però che chi non rispetta le leggi deve pagarla e, se non cittadino, non può più restare.
Certo, per fare in modo che la valdostanità, pur soggetta alle reinterpretazioni derivanti dai cambiamenti in atto oggi come in ogni epoca, diventi - specie nello Statuto d'Autonomia - un caposaldo condiviso bisogna lavorare con impegno e serietà per evitare tensioni e incomprensioni, che minerebbero quel concetto di "popolo valdostano" da cui discendono il nostro attuale regime politico e le sue istituzioni.