Non è vero che la montagna uccide, ma è vero che in montagna esistono rischi oggettivi, dovuti all'ambiente ostile ed alle difficoltà intrinseche nell'alpinismo. Ha scritto un celebre psicoanalista italiano, Cesare Musatti, una verità non discutibile: «La montagna è uno sport che presuppone la costante incombenza del rischio e della morte». Così è stato in queste ore - e ne sono profondamente addolorato - per due giovani alpinisti: Gérard Ottavio di Saint-Vincent, ma residente a Verrès dove si era sposato con una ragazza del paese, presidente delle "Guide del Cervino" e Joël Déanoz di Châtillon, direttore di "Scuola di sci" al Breuil-Cervinia, ora in procinto di diventare guida e la scalata fatale serviva proprio per il suo curriculum alpinistico. Entrambi laureati, erano due montanari colti e preparati, che avevano scelto la montagna come loro mestiere, avendo la possibilità di scegliere anche altro, se lo avessero voluto.
Ottavio conosceva a menadito la storia dell'alpinismo ed anche di quella montagna, il Cervino, dove ha perso la vita, avendo piena consapevolezza di quanto questa piramide di roccia fosse piena di insidie, prima fra tutte le scariche di pietre. Lascia tre bambini, che un giorno sapranno quanto fosse un alpinista capace e un uomo sensibile il loro papà. Joël aveva perso da bambino il papà Beppe, guida alpina, sepolto sotto una valanga, dunque quel dolore lo aveva già vissuto. Aveva lavorato con me nel settore degli Affari europei, mostrando curiosità e grande vivacità intellettuale, ma il suo non poteva essere un lavoro d'ufficio, perché per lui le montagne erano un richiamo irresistibile. Questa loro morte, nell'impossibilità di descrivere il vuoto che lasciano, ha l'elemento consolatorio che sono morti laddove amavano vivere, anche se la morte è sempre terribile per noi che restiamo. Ricordo cosa scriveva un alpinista, Renato Casarotto, scomparso sulle montagne himalaiane per un brutta caduta (riuscì via radio a salutare la moglie mentre la morte stava per ghermirlo), che intervistai quando ero un giovane giornalista: «Il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro ci sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto me stesso, nel bene e nel male». Così i due scomparsi, che portavano in montagna non solo il gesto atletico, la prodezza sulla parete, l'energia per raggiungere le vette, ma la loro scelta consapevole di muoversi in questo mondo incantato che è l'alta montagna, dove però il confine fra gioia e tragedia è molto flebile, come dimostrato dai tanti alpinisti straordinari oggi ricordati da una croce o da una targa. Ricordo Reinhold Messner quando mi raccontava del fratello, morto durante una scalata comune e di cui talvolta evocava una sorta di presenza fantasmatica nelle sue salite solitarie e sosteneva di essere lui stesso un sopravvissuto a tanti rischi che aveva incontrato e solo l'imponderabile gli aveva consentito di uscirne vivo. Scriveva Walter Bonatti, un altro fuoriclasse che aveva flirtato con i rischi delle scalate: «Che quelle rocce innalzantisi in forma di mirabile architettura, quei canaloni ghiacciati salenti incontro al cielo, quel cielo ora azzurro profondo dove l'anima sembra dissolversi e fondersi con l'infinito, ora solcato da nuvole tempestose che pesano sullo spirito come una cappa di piombo, sempre lo stesso ma mutevolmente vario, suscitano in noi delle sensazioni che non si dimenticano più». Così lo spirito di Ottavio e quello di Joël sono lì sulla "Gran Becca", cui avevano dedicato gran parte della loro esistenza, purtroppo ingiustamente corta, stroncata in un giorno d'ottobre con i suoi colori d'autunno, che già invitano alla malinconia e alla nostalgia, che noi avremo per loro.