"Tentazione" è una di quelle parole che ti creano dei rovelli sin da piccolo. La preghiera per eccellenza, il "Padre Nostro", quando ci ragionavi sopra e non la pronunciavi meccanicamente, ti metteva alla prova con quel passaggio che dice «e non ci indurre in tentazione…». Ora so, allora no, che si trattava in questa versione di un errore di traduzione, come ha spiegato bene il teologo Giuseppe Pulcinelli su "Famiglia Cristiana": «Nell'originale greco c'è il verbo "eisenenkes" che significa "immettere", "introdurre". Ma si vuol forse dire che Dio spinge l'uomo verso il male (la tentazione) e quindi gli si chiede di non farlo? In realtà, alla luce di altri passi della Scrittura (cfr. Gc 1,13: "Dio non tenta nessuno"), si può e si deve dare un'altra spiegazione».
Il verbo greco «probabilmente traduce - in modo approssimativo - un originale semitico che va compreso in base a testi come il Salmo 140 (141),4: "Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori". Il senso dell'invocazione è dunque: "Non lasciarci entrare e soccombere nella tentazione"». Ormai la versione ufficiale della "Cei" (2008), ha corretto con «non abbandonarci alla tentazione» per fare piazza pulita di un'evidente ambiguità. Trovo la frase adattissima ad un uso laico, rispetto alla situazione politica valdostana, illustrata con efficacia da sedute del Consiglio Valle in cui - ovviamente è giusto che ciò avvenga - ci si attarda a lungo attorno ad un tema che sta diventando centrale, quello della questione morale. In sostanza ciò riguarda chi in politica venga colpito da gravi sospetti rispetto a propri comportamenti variamente lesivi oppure inquisito per le stesse ragioni o successivamente sottoposto a processo per questo e condannato o meno nei diversi gradi di giudizio. Compresa quell'eccezione al principio della condanna definitiva che passa attraverso la sospensione dall'incarico elettivo, previsto per certi reati dalla "legge Severino", proprio per la delicatezza della funzione pubblica ricoperta. Ebbene tutto diventa più complicato, quando la situazione come capita in Valle si fa intricata, perché non ci si trova di fronte a fatti rari, ma ad un insieme ormai ampio e pure difficile da percepire nell'incrociarsi delle varie giurisdizioni (penale e contabile in particolare). Anche perché certi fatti pendono sulla Politica come una spada di Damocle, pronta a cadere pesantemente - se avverrà - su protagonisti della vita pubblica con possibili rivolgimenti simili tsunami che modifichino il panorama politico. Questa indeterminatezza, fra attesa di sviluppi talvolta lunghi nelle inchieste, svolgimenti eventuale di processi nei diversi gradi con altrettanti tempi dilatati, si somma ad una politica che appare ai cittadini camaleontica con passaggi arditi, da veri trapezisti, da parte di alcuni protagonisti, che in sostanza violano - motivandolo ogni volta alla bell'e meglio alla platea di propri sostenitori - la volontà espressa dalla ben più vasta platea degli elettori al momento del voto. Ciò crea sconcerto e indignazione in alcuni, mentre in altri accende la tentazione, quella di generalizzare un rifiuto verso la politica e i politici, accomunati in fondo in un unico destino, caricati su una sorta di Arca di Noè da affondare una volta per sempre. Non è facile reagire e dare la carica giusta per evitare che trionfi il disimpegno, che poi non è solo l'astensionismo al voto, ma un tarlo che allontana il cittadino dal suo impegno civico e fa della politica un marchio d'infamia, senza distinzioni. Eppure non esiste alternativa ad evitare generalizzazioni: mi veniva in mente, essendo uno dei tratti della mitologia valdostana, la storia degli Argonauti che cercavano il vello d'oro (manto di pecora o di ariete dorato e alato capace di volare) e venivano indicati come i possibili fondatori di quella mitica città antica, prima di Augusta Prætoria, che si chiamava Cordelia. Ha scritto l'archeologo Francesco Mezzena: «Gli argonauti erano descritti come i migranti dell'Età del bronzo come marinai di fiume. Viaggio di scienziati dei metalli. Paiono seguire il mito di Giasone, Eracle, Cadmo. Fu l'inizio di una civiltà industriale. Per fiume viaggiarono in tutta Europa. Danubio, Vistola, Rodano e Reno. E la Valle d'Aosta aveva i valichi per raggiungere sia il Reno a Nord, sia il Rodano a Ovest». Aggiungeva Mezzena, spiegando come il vello d'oro fosse forse nient'altro che la ricerca del metallo prezioso: «Quei viaggi aprirono anche la strada al commercio dei metalli. Lo stagno, elemento base per il bronzo, si trovava in Cornovaglia. Cercavano nuove miniere. La Mesopotamia era affamata d'oro e allora non si poteva scavare in profondità, quindi i filoni si esaurivano in fretta». Eracle-Ercole con il mito del suo passaggio al Piccolo San Bernardo è dunque piantato in quell'immaginario di un periodo privo di certezze storiche, ma il vello d'oro mantiene tutta la sua simbologia, quella di avere il potere di guarire le ferite. Come quelle gravissime nel corpo della politica valdostana.