Ha ragione Emmanuel Macron, Presidente francese, che dopo l'ennesimo episodio di profanazione di un cimitero ebraico con grandi svastiche sulle tombe in Alsazia, ha detto che cambierà leggi, parificando l'antisionismo (contro cioè il movimento che ha portato alla creazione dello Stato di Israele e che oggi lo pone sul banco degli accusati) all'antisemitismo (l'odio verso gli ebrei). Cito a questo proposito cosa scrisse su di una rivista americana Rav Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito dal 1991 al 2013. Seguiamo il ragionamento: «Sta chiaramente succedendo qualcosa, ma cosa? Molti a sinistra affermano di essere accusati ingiustamente. Non sono contro gli ebrei, dicono, si oppongono solo alle politiche dello Stato d'Israele. Qui uno deve ammettere l'ovvio. Criticare il governo israeliano non è antisemita. E neanche il movimento "Bds" è intrinsecamente antisemita. Molti dei suoi sostenitori hanno un interesse genuino per i diritti umani. Tuttavia, è una facciata per il nuovo antisemitismo, un empia alleanza tra l'islamismo radicale e la sinistra politica».
«Che cos'è allora l'antisemitismo? - si chiede ancora Sacks - Non è un insieme coerente di credenze bensì un insieme di contraddizioni. Prima dell'Olocausto, gli ebrei erano odiati perché erano poveri e perché erano ricchi; perché erano comunisti e perché erano capitalisti; perché erano chiusi tra loro e perché si infiltravano ovunque; perché si sono aggrappati tenacemente a credenze religiose antiche e perché erano cosmopoliti senza radici che non credevano in niente. L'antisemitismo è un virus che sopravvive mutando. Nel Medioevo, gli ebrei erano odiati per la loro religione. Nel XIX e XX secolo erano odiati per la loro razza. Oggi sono odiati per la loro nazione, Israele. L'antisionismo è il nuovo antisemitismo. Anche la legittimazione è cambiata. Nel corso della storia, quando le persone hanno cercato di giustificare l'antisemitismo, l'hanno fatto ricorrendo alle più grandi fonti di autorità disponibili dentro la cultura. Nel Medioevo, era la religione. Nell'Europa post-illuminista, era la scienza. Oggi sono i diritti umani. Per questo Israele, l'unica democrazia pienamente funzionante in Medio Oriente dotata di libertà di stampa e di una magistratura indipendente, è regolarmente accusata dei cinque crimini contro i diritti umani: razzismo, apartheid, crimini contro l'umanità, pulizia etnica e tentato genocidio. Questa è la calunnia del nostro tempo. L'antisemitismo è un classico esempio di ciò che l'antropologo René Girard vede come la forma principale di violenza umana: cercare un capro espiatorio». Sia chiaro che il problema palestinese va risolto, ma chi vuole distruggere per questo lo Stato di Israele passa per me subito dalla parte del torto, in modo inequivocabile. Prosegue poi l'autore: «Oggi il ragionamento è questo. Dopo l'Olocausto, ogni essere umano benpensante doveva opporsi al nazismo. I palestinesi sono i nuovi ebrei. Gli ebrei sono i nuovi nazisti. Israele è il nuovo crimine contro l'umanità. Pertanto ogni persona benpensante deve opporsi allo Stato d'Israele, e poiché ogni ebreo è un sionista, dobbiamo opporci agli ebrei. Questo ragionamento è completamente sbagliato. Erano ebrei non israeliani quelli uccisi negli attentati terroristici a Tolosa, Parigi, Bruxelles e Copenaghen. L'antisemitismo è una forma di fallimento cognitivo. Semplifica problemi complessi. Divide il mondo in bianco e nero, vedendo tutta la colpa da una parte e tutto il vittimismo dall'altra. Sceglie un gruppo su cento colpevoli da incolpare. Zittisce il dissenso e non si mette mai in discussione. Il ragionamento è sempre lo stesso. Noi siamo innocenti; loro sono colpevoli. Ne segue che se noi - cristiani, ariani o musulmani - dobbiamo essere liberi, loro, gli ebrei, o lo Stato d'Israele, devono essere distrutti. Ed è così che cominciano i grandi crimini. Gli ebrei sono stati odiati perché erano diversi. Erano la minoranza non-cristiana più grande nell'Europa cristiana prima delle due guerre mondiali. Oggi sono la più grande presenza non-musulmana in un Medio Oriente islamico. L'antisemitismo è sempre stato frutto dell'incapacità di un gruppo di creare spazio per le differenze. Nessun gruppo che adotti questa volontà potrà mai creare una società libera. L'odio che inizia con gli ebrei non finisce mai con gli ebrei. In un mondo inondato dall'odio attraverso le divergenze religiose, persone di tutte le fedi e non credenti devono stare insieme, non solo per sconfiggere l'antisemitismo ma per assicurarsi che i diritti delle minoranze religiose siamo difesi ovunque». Leggevo ieri su "La Stampa" l'inedita lettera del 1945 di Primo Levi, che è uno dei primi documenti di quel lungo cammino che solo negli anni successivi porterà Levi a raccontare il lager e i problemi profondi dell'Olocausto: «Carissimi zii e cugini, sono stato delegato dalla famiglia per scrivervi, cosa che faccio molto volentieri anche perché credo di essere quello che ha le cose più interessanti da raccontare. Penso che già sappiate del mio ritorno, e inoltre che abbiate idea di cosa era l'Italia di due anni fa, ed un anno fa. Ciò premesso, ecco un riassunto della mia storia. Nel novembre '43 ero entrato a far parte di una banda di partigiani sopra Brusson (Aosta). Il 13 dicembre '43 sono stato arrestato in rastrellamento dalla Milizia repubblicana: eravamo ancora in fase preparatoria, non eravamo armati: non ci fu combattimento. Con me furono presi due ragazzi, e due mie amiche ebree: Vanda e Luciana. Eravamo muniti di documenti a falso nome: ciononostante decidemmo (noi tre) di ammettere di essere ebrei, pensando che fosse il solo modo di giustificare la nostra presenza lassù, e di evitare la condanna per attività partigiana. Fummo infatti assolti: ma, come ebrei, inviati a Carpi, in un campo di concentramento. Come temevamo, non era che l'anticamera della deportazione: il 22 febbraio '44 siamo partiti tutti, 650 disperati, con bambini, donne, vecchi, cinquanta rinchiusi in ogni vagone merci, quattro giorni e quattro notti di viaggio senza dormire e senza bere. Vediamo dalle feritoie sfilare nomi di città austriache, poi ceche, poi polacche. Finalmente, a notte, il treno ferma: siamo già circondati da filo spinato, siamo ad Auschwitz, in Slesia. I tedeschi ci fanno scendere, rapidi e metodici ci dividono in tre gruppi: 95 uomini validi, 29 donne valide, e gli altri. Le mie due compagne sono scomparse nel buio: non vedrò mai più Vanda. Lo dico subito; di tutto il convoglio, siamo ora vivi quindici. L'intero gruppo dei non validi fu gasato la notte stessa: erano fra questi Ylca, Ruggero e Raimondo. Remo era con me fra i 95: noi fummo inviati a Monowitz, campo dipendente da Auschwitz. Ci radono i capelli, ci tatuano sul braccio un numero progressivo, ci denudano, ci rivestono di stracci immondi a rigoni: non siamo più uomini. Nessuno spera più di uscire. Il giorno dopo comincia il lavoro, e per chi non muore continuerà per undici mesi, senza un giorno di riposo. Chi spacca pietre, chi scarica mattoni, chi scava la terra, chi trasporta sacchi di carbone e di cemento. Nessuno di noi capisce il tedesco, perciò riceviamo botte senza economia. Fa freddo: ha nevicato ancora in aprile, il vento soffia gelato dai Carpazi, farà freddo anche d'estate, e noi stiamo tutto il giorno all'aperto, anche sotto la pioggia. Dopo la prima settimana, la fame è già una ossessione, ci sarà compagna fedele fino alla fine: di notte, il campo intero non sogna che mangiare. La sveglia è alle quattro, dormiamo in due per cuccetta, in duecento in ogni baracca di legno: nel campo siamo diecimila, si parlano tutte le lingue d'Europa. Chi si ammala lievemente è messo qualche giorno a riposo: i malati gravi scompaiono, vanno in un campo a dieci chilometri di qui, dove tutto è molto bene organizzato e la camera dei gas tossici e il crematorio funzionano senza interruzione. Ma non occorre essere malati: basta essere deperiti, o troppo vecchi, o anche solo avere un momento di sfortuna: le "selezioni" si susseguono a intervalli irregolari, in una frazione di secondo si giudica se siamo o no in grado di fornire ancora lavoro utile. Quattro milioni di ebrei hanno varcato la soglia della camera a gas. Per tre anni il Camino ha oscurato il cielo. Ma tutto avviene metodicamente, nel modo più economico: prima della cremazione, si tolgono ai cadaveri i denti d'oro: le ceneri, come materiale fosfatico, vanno alle stazioni sperimentali di agronomia. Io sono stato a Monowitz undici mesi. Non era un cattivo campo: a parte i "selezionati", i morti di malattia o di percosse erano una ventina al giorno. Ho saputo poi che le condizioni delle donne erano assai peggiori delle nostre. Gli ultimi due mesi li ho passati lavorando da chimico, in un laboratorio: i tedeschi mancavano ormai di uomini, e io avevo vinto un concorso per il posto: questo contribuì a salvarmi dalle malattie, non però dalla fame. Nel gennaio '45, i russi attaccarono in forze verso Cracovia: il 17 i tedeschi decisero di evacuare la zona, radunarono tutti i validi e li trascinarono seco. Pochissimi fra questi, che erano la maggior parte, si sono salvati: parte furono uccisi dai tedeschi, parte morirono di freddo e di fame. Io avevo preso cinque giorni prima la scarlattina, e sono rimasto: è difficile non pensare a un miracolo; non ero mai stato malato prima. Pare che le SS avessero ordine di sopprimere anche noi, futuri accusatori: non ne ebbero il tempo. Siamo rimasti abbandonati a noi stessi per dieci giorni, eravamo ottocento; in questo periodo, duecento sono morti di fame, freddo e malattia. L'undicesimo giorno, abbiamo visto la prima pattuglia russa». Spezzo la lettera e ne cito ancora un pezzo per memoria: «Quanto all'Italia, forse qualcosa già sapete. La parte migliore della nostra generazione (nel Nord: a Sud le cose si sono svolte diversamente) ha partecipato alla resistenza contro i tedeschi e i neofascisti, poi alla guerra partigiana e all'insurrezione dell'aprile '45. Com'è d'uso, i migliori sono scomparsi, e a cose finite la scena è stata invasa dall'ambizione e dalla dubbia fede. Le superstiti coscienze integre sono deluse: il fascismo ha dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi ma non è morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina materiale e morale in cui esso ha indotto il popolo. Fa freddo, c'è poco da mangiare, non si lavora; fiorisce il banditismo, e mentre si parla di democrazia sociale, crescono mostruosi nuovi capitalismi nati dal traffico nero: è l'aristocrazia più antisociale. La guerra è finita, ma non c'è ancora la pace». Lo stesso Levi sarà il più convinto della necessità della memoria non per trascinare all'infinito la vicenda tragica dell'Olocausto, ma perché quella è stata la tappa più tragica - con la programmazione nazista con complicità fascista dell'annientamento di un popolo - di una vecchia storia di persecuzione verso gli ebrei, che cova ancora sotto le ceneri. Per cui va benissimo criticare anche aspramente Israele e la sua politica, ma se diventa il pretesto per riprendere il cammino della persecuzione, pensando a quanti ebrei decidono ormai di lasciare l'Europa, non ci siamo proprio e bisogna reagire.