Alla Pasqua ognuno può dare il significato che vuole. Per i cristiani è anzitutto la festa religiosa più importante e si ripropone quella vicenda umana e divina di Gesù sulla croce - il simbolo drammatico per una religione che ruota il suo pensiero attorno all'amore - e poi naturalmente la resurrezione, che è il momento di speranza dopo la tragedia. Dice Enzo Bianchi, già priore della comunità di Bose: «Per i cristiani la Pasqua è il significato che fonda tutta la loro fede, perché è la memoria della Resurrezione di Gesù Cristo. E quindi del fatto che la morte non è più l'ultima frontiera. Gesù era un uomo, ma era anche il figlio di Dio: i cristiani lo confessano nel Credo, costantemente. Paolo l'apostolo arriva a dire "Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede". Quindi la fede dei cristiani si fonda tutta sulla Resurrezione di Gesù, che attualmente è vivente e presente all'interno della Storia come qualcuno che ne cambia definitivamente le sorti».
Poi aggiunge - lo traggo da un'intervista al "Fatto Quotidiano" di qualche anno fa di Silvia Truzzi - ancora: «il messaggio della Pasqua vale per tutti. Se vogliamo decodificarla dalle formule teologiche o dogmatiche, la Pasqua ci dice che un uomo, Gesù Cristo - avendo vissuto l'amore fino all'estremo, facendo del bene, non rispondendo alla violenza, servendo gli uomini e i fratelli - è andato alla morte, condannato dal potere religioso e dal potere politico totalitario: accade sempre ai giusti e a tutti quelli che nella Storia si sono opposti al male. Questo suo amore non poteva finire nella morte. In ogni cultura c'è l'opposizione tra eros e thanatos, l'amore e la morte che si combattono. E' qualcosa che viviamo nelle nostre vite: quando amiamo vorremmo che questo amore fosse eterno. Quando diciamo a una persona "ti amo" è un dire che l'amore sta iscritto nell'eternità. Perfino il "Cantico dei Cantici" termina dicendo che amore e morte stanno in un duello. E che l'amore è tenace e forte come la morte. Ma il "Cantico dei cantici" non risolve il problema. Invece il Cristianesimo nella sua fede ha questo messaggio: l'amore è più forte e la morte non può essere l'ultima parola. L'amore può vincere: questa idea può interessare tutti». In epoca di populismo e di chi agita la piazza come momento di decisione, affidandosi ormai al Web come luogo risolutore di una confusa democrazia diretta, Pasqua è anche Ponzio Pilato - che si dice sia stato anche in Valle d'Aosta alla sua epoca - che chiede ad un popolino «Gesù o Barabba?» e quella folla agitata e rozza salva la vita al delinquente. Immagine che illumina la scena con grande chiarezza. Pasqua porta nel proprio nome il termine "passaggio" e si riferisce all'attraversamento del Mar Rosso degli Ebrei in fuga dall'Egitto e questa parola e quell'evento pieno di speranze può essere adoperato in ogni momento di difficoltà. Scriveva anni fa sul "Sole - 24 Ore" l'antropologo siciliano Franco La Cecla, iniziando con una citazione: «"L'idea di felicità che noi nutriamo è tutta tinta nel tempo a cui ci ha assegnati una volta per tutte il corso della nostra vita. Una gioia, che potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell'aria che abbiamo respirato, con uomini a cui avremmo potuto parlare, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell'idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l'idea di redenzione. Lo stesso avviene per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca in sé un indice segreto che lo rimanda alla redenzione". Nessuno come Walter Benjamin ha tradotto in termini secolari, attuali, nostri l'anelito di felicità che è presente nella redenzione. Ne abbiamo bisogno come non mai in un momento in cui gli "ultimissimi", le escatologie religiose sembrano capaci solo di posizionarsi all'interno della disperazione della vita individuale e collettiva. Che gran fallimento le promesse dell'aldilà, del Paradiso e dell'Inferno, dell'altro mondo islamico, del Nirvana dell'annullamento nel Tutto se vengono evocati oggi come risposta a dei tempi in cui la Storia sembra gravata solo di macerie, ci si fa esplodere per uccidersi e uccidere perché di là c'è una vita ben migliore o ci si perde nell'oblio del presente, rinunciando a ogni passione per questa vita. Se il presente che viviamo unico non è "riscattabile" da ora, se non è pervaso dall'attesa di una felicità - mia ma anche di quelli che mi stanno intorno o non conosco - allora ogni resurrezione, ogni reincarnazione, ogni annullamento è inutile. Il nostro tempo è sicuramente un tempo di disperati cinici, convinti che le religioni servano a illudersi o a illudere altri e nello stesso tempo convinti che il mondo e la vita presi di per sé sono solo una grande buggeratura. Questo è il mondo senza umanesimo, finito nelle trappole del nichilismo come lo pensava Dostojevskij, cioè l'idea che la vita è una guerra di miserie individuali e che il suo corso è lo spegnersi di qualunque illusione. Può anche darsi che siamo "gettati" in questo mondo, ma il fatto stesso che questa "gettatezza" non ci faccia pensare al suo mistero, ma direttamente e solo al dolore che deve averci fatto l'impatto, la dice lunga. Levinas, forse uno dei pochi filosofi della speranza apparsi negli ultimi anni, notava che il nostro bisogno di felicità non corrisponde all'attesa di una fregatura, ma al fatto che nel fondo sappiamo che possiamo esserlo, che c'è qualcosa che può saziare e rispondere al nostro desiderio. Ogni Pasqua ricorda qualcosa di simile e cioè che non siamo solo un coacervo d'illusioni tradite, ma piuttosto un anelito costante a ricominciare, a partire da zero. Il presente è la promessa ripetuta ogni istante che, nonostante il passato, nonostante la tristezza, nonostante il dolore, nonostante il male - che esiste e che facciamo o che ci fanno o che capita - si può sempre rinascere». Mi fermo qui nella citazione. Credo che in queste considerazioni complessive emerga una Pasqua utile - anche laicamente - per riflettere e per capire se e come ripartire di fronte alle difficoltà. Devo davvero spiegare perché questo valga anche per la Valle d'Aosta di oggi?