In fondo perché mi dovrei stupire: molto è già nel "Dna" e nelle vicende storiche, anche se non mi piace affatto. Il regionalismo non si è affermato dopo l'Unità d'Italia e l'Italia liberale è poi piombata nel centralismo fascista, il punto più buio con buona pace dei nostalgici attuali. Previsto dalla Costituzione repubblicana, il regionalismo è cresciuto con difficoltà nelle Autonomie speciali come la Valle d'Aosta in una lotta continua per affermare le proprie ragioni, mentre per le Regioni a Statuto ordinario si è dovuto attendere vent'anni per avere un'applicazione avvenuta poi nei decenni successivi con indicibile lentezza. Da allora è stato uno saliscendi di cui sono stato o studioso o testimone diretto: l'apice è stato raggiunto nel 2021 con la Riforma del Titolo V con una ventata quasi federalista. Seguii in primissima fila - e lo mostrano i resoconti parlamentari - quanto avvenne in quegli anni, fatti di riforme abortite ed altre realizzate.
In barba allo spirito federalista, la ragione di una sterzata pro Regioni derivava dalle paure del federalismo di stampo leghista. Da allora la Lega ha fatto una strada diversa ed è nel contempo è partito da destra come da sinistra il tentativo di controriforma antiregionalista. Prima con una legge costituzionale di Silvio Berlusconi e poi di Matteo Renzi, bocciati per fortuna da un referendum popolare in cui gli elettori avevano intravvisto la fregatura. Oggi penso che andrebbe diversamente e questo, per me, è un evidente campanello d'allarme. Ora, infatti, tutto è ripartito con una grande orchestrazione e non stupisce affatto che ciò avvenga in periodo di pandemia. Ogni emergenza - lo mostrano persino i Paesi federalisti - è buona per centralizzare le decisioni sulle Capitali. Roma sta interpretando la parte con grandissimo impegno e convinzione. Sembra il crescendo di un concerto in cui la musica sembra essere prodromica alle decisioni concrete. Guardate i notiziari radiotelevisivi, i talk show, le pagine dei giornali e scoprirete che è in corso un'operazione in grande stile, cui pare partecipare anche qualche magistratura che dipinge le Regioni come la quintessenza di sprechi e ruberie. Lo Stato, invece, è limpido e lindo: il massimo dell'efficienza e delle capacità, al contrario del regionalismo, capro espiatorio su cui scaricare ogni colpa. A me questa situazione, che nulla ha a che fare con le molte cose che non hanno funzionato nel regionalismo, non piace per niente. La democrazia locale fa parte, anche prima delle riforme costituzionali del 2001, di una delle caratteristiche della Repubblica italiana. Certo mal digerita dal centro, come dicevo, ma questo non vuol dire niente. Anzi, la preoccupazione nella controriforma è che periodo di difficoltà e di confusione sono l'humus su cui si può passare verso una riduzione degli spazi di libertà ed il regionalismo è uno dei collanti di una democrazia. Chi lo mette in discussione temo celi logiche che non mi piacciono e sappiamo bene che già nella pandemia abbiamo visto restrizioni personali e sociali che lasciano stupiti. Il virus da combattere con forza non deve diventare il passepartout per operazioni politiche ed istituzionali puzzolenti. Così è l'Italia che si innamora e disamora delle cose con cambi di scenario repentini e nevrotici. Chi sale, chi scende, chi torna, chi sparisce. Le istituzioni di conseguenza sono fragili e mutevoli nella continua schizofrenia di elettori ed eletti.