Mi ha sempre incuriosito riflettere su che cosa si mangiasse nel passato. Ci sono pubblicazioni interessanti che fanno leva sulla messe di documenti vari che mostrano uno spaccato dei gusti alimentari, che erano certo molto legati al territorio in un mondo - è lo era anche la Valle d'Aosta - prevalentemente rurale e localistico. Penso sempre agli alimentare che emergono dalle lunette del castello di Issogne squarci di vita quotidiana dell'epoca del tardo Medioevo con la bottega del sarto, la farmacia, la macelleria, il Corpo di guardia, il mercato di frutta e verdura, la bottega del fornaio, dello speziale, del pizzicagnolo. Spunta anche l'antesignana della "Fontina"! Siamo ovviamente prima dell'arrivo di prodotti dalle Americhe che impatteranno anche sulla cucina alpina, come mais, patate, pomodoro e cioccolato.
Per questo mi ha divertito leggere sul sito della "Treccani" quanto scritto sulla cucina nei "Promessi Sposi", di cui ho parlato giorni fa con ben diversa angolatura letteraria. Ricordo che il romanzo di Alessandro Manzoni è ambientato tra 1628 e il 1630 in Lombardia, durante il dominio spagnolo, per cui anche nel cibo evoca quel periodo, in cui alla peste si aggiunse una terribile carestia. Ricorda Elena Felicani: «Il primo alimento che compare sulla tavola manzoniana è un cavolo, "un gran cavolo": a portarlo dall'orto, "sotto il braccio, e con la faccia tosta" è Perpetua, che Don Abbondio, stremato dalla veglia angosciosa della notte prima e dal colloquio del mattino con Renzo, chiama "con voce tremolante e stizzosa" (Cap. II, 255). La scena, resa tragicomica dai movimenti goffi del curato, appare quasi buffa dall'entrata di Perpetua con il cavolo sottobraccio. Questo ortaggio autunnale è la variante lombarda del cavolo verza "a foglie increspate, bollose e grinzose", elemento base di abbondanti primi piatti, come le zuppe e le minestre della tradizione contadina (fra queste la tipica "casœula lombarda", termine dal lombardo "cassola, casseruola", il tegame che contiene la zuppa), ma anche dei più calorici involtini di salsiccia, avvolti appunto in foglie di cavolo». Si passa poi alla polenta: «Seguendo la narrazione, il primo piatto che vediamo servito sulla tavola è la polenta, "una piccola polenta bigia, di grano saraceno" a casa di Tonio (Cap. VI, 275-295); certo, gli aggettivi usati per descrivere l'alimento non suscitano alcun particolare desiderio (la polenta è piccola "poca" e bigia "grigia", quasi "sbiadita"): solo nella descrizione dell'ambiente troviamo quel po' di calore famigliare che è proprio del focolare domestico. Accanto "all'orlo d'un paiolo, messo sulle ceneri calde" siedono la madre, un fratello (Gervaso), la moglie di Tonio e "tre o quattro ragazzetti", in attesa che venga "il momento di scodellare" quella scarsa vivanda comune che sembra non bastare per il numero dei commensali. Ad interrompere il povero banchetto, dove manca la materia prima e anche "quell'allegria che la vista del desinare suol pur dare", è Renzo che, "barattati i saluti" con la famiglia riunita e rifiutato l'invito di restare a cena, si accorda con Tonio e Gervaso per cenare all'osteria del villaggio, dove potranno parlare con tutta libertà; una proposta "tanto più gradita, quanto meno aspettata", accolta dalle donne e dai bambini con velata contentezza perché, "sottratti alla polenta quei concorrenti", le porzioni scodellate sarebbero state più generose per tutti». Più avanti l'autrice si dedica al racconto delle "polpette prodigiose dell'oste": «Renzo, Tonio e Gervaso giungono così all'osteria del villaggio, un "luogo di delizie", ma anche un luogo di passaggio che segna l'uscita dal mondo delle difficoltà verso una realtà dell'abbondanza, ma solo apparente: qui un oste grottesco, "con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano", porta un piatto di polpette prodigiose, che addirittura "farebbero resuscitare un morto" (Cap. VII, 410). Non possiamo sapere con precisione quali e quanti ingredienti l'oste abbia usato; è certo però che Manzoni ha ben in mente le "mondeghili" milanesi, polpette di carne con verdura, formaggio, pangrattato, cotte nel burro o fritte, talvolta avvolte nell'immancabile verza, il cui nome è un adattamento milanese del termine "almondiguilla, polpetta" importato dagli spagnoli a Milano durante la loro dominazione». Poi l'autrice si occupa di uno scenario più vasto: «Sono proprio le osterie a scandire alcune tappe importanti del romanzo e ad offrire, in quanto tali, termini propri del lessico della cucina. Queste locande, descritte da Manzoni come luoghi ambigui, sono luoghi frequentati perlopiù da popolani e villani, da avventori di ogni sorta e levatura sociale, che consumano pietanze rustiche e vini della casa, in cerca di un alloggio di fortuna. Come già notava Maria Corti nel mai dimenticato saggio "Con Manzoni all'osteria della Luna Piena" (Corti 1989), l'universo rappresentato dalle taverne costituisce uno spazio chiuso e rarefatto, ma pur sempre vero e autentico, quale perfetta rappresentazione della vita popolare contadina, cui corrisponde un fuori, la città, il palcoscenico artefatto di una realtà costruita, fatta di intermittenze tra luci e ombre. La più nota delle tre osterie menzionate nel romanzo è certamente l'osteria "della Luna Piena" con il suo "usciaccio, sopra il quale pesava l'insegna" (Cap. XIV, 125), dove Renzo, che tra tutti è forse l'unico "buon figliolo", per "un gran bisogno di mangiare e riposarsi" trova riparo dopo il tumulto di San Martino: sedutosi a tavola, e allontanato il pensiero felice dell'ultimo pasto condiviso con Lucia ed Agnese, Renzo è pronto, tra un bicchiere di vino e l'altro che "tracanna in un sorso", ad assaggiare lo stufato. E' questo il piatto simbolo delle osterie, tipico della tradizione settentrionale, composto da carne anche poco pregiata "tagliata in pezzi, cotta secondo tale procedimento", che al palato del giovane affamato risulta una prelibatezza, tanto che "ingoiandone un boccone" sorride "con maraviglia"». E, infine, il pane! Tratto distintivo della civiltà umana, che viene declinato a seconda delle mille varianti. Così conclude la Felicani: «E poi c'è quel filo bianco di farina che segna tutto il romanzo, che marca luoghi e momenti importanti della storia, e si materializza in forme diverse di pane, che da alimento si fa simbolo, non più della fame, ma della giustizia, della speranza e del perdono (Stella 2005): al grido di "pane e abbondanza" pronunciato da Antonio Ferrer, il popolo risponderà a gran voce "pane e giustizia", un binomio inscindibile dove le cose si caricano di valore simbolico e le parole le nobilitano. Osserviamo così il pane ritrovato da Renzo al rientro a Milano, che raccoglie seguendo delle "strisce bianche e soffici, come neve", un pane tondo e "bianchissimo" che "non era solito mangiare che nelle solennità" (Cap. XI, 405); poi il "pane della provvidenza", il terzo e ultimo di quei pani sparsi durante i tumulti e raccolti sotto la croce di San Dionigi, che il giovane alza in aria come trofeo all'osteria della Luna Piena (Cap. XIV, 170); più avanti ancora, il pane della solidarietà che il fornaio di Monza porge a Renzo "sur una piccola pala (Cap. XXXIII, 515). Mi piace concludere con le parole di fra Cristoforo e l'immagine del suo pane, avuto come segno di perdono dal fratello del nobile che Lodovico, è questo il nome del frate prima di indossare la tonaca, uccide in duello: il pane del perdono quindi, di cui "serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo" (Cap. IV, 370), lo stesso che lui darà in dono a Renzo e Lucia nel Lazzaretto, alla conclusione del romanzo. Fra Cristoforo si congeda così dai due futuri sposi, con quel pane prezioso, custode di giustizia, di perdono e di carità: "Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!" (Cap. XXXVI, 460)». Il pane come cibo semplice, cha avvolgiamo di così tanti significati.