Marcel Proust, che sulla memoria ha costruito parte del suo successo di romanziere, ha scritto: «Nous trouvons de tout dans notre mémoire. Elle est une espèce de pharmacie, de laboratoire de chimie, où on met au hasard la main tantôt sur une drogue calmante, tantôt sur un poison dangereux». Ci pensavo rispetto alla prova della pandemia, che ci ha posti di fronte ad un passaggio della nostra vita inaspettato e doloroso. In quei giorni di confino in casa e nella sensazione di una socialità azzerata giocarono di certo come elemento consolatore le memorie della nostra vita. Si rivalutavano i momenti belli, i luoghi visitati, l'affetto delle persone care evocate per rompere l'assedio del virus con l'uso dei collegamenti video. Al contrario ora che piano piano - grazie a noi vaccinati - riscopriamo certe libertà ne godiamo a pieno proprio perché la memoria serve a ricordare quei momenti cupi in cui la malattia colpiva intorno a noi in un clima generale di apprensione e spesso di paura.
L'altro giorno ad Annecy ci siamo ritrovati con quei colleghi e amici francesi con cui abbiamo condiviso parecchie videoconferenze con i visi coperti dalle mascherine in un ambiente surreale da film di fantascienza. E' stato bello scoprire i nostri volti e i nostri sorrisi seduti a tavola in un momento cameratesco quasi infantile per la semplicità dell'evento divenuto esemplare della ripartenza attraverso gesti smarriti come una stretta di mano. Le generazioni prima della mia avevano vissuto la cupezza ed i dolori delle Guerre mondiali, fonti tragiche di momenti difficili, di cui sono state fronte preziosa di ricordi per non dimenticare e non ripetere. Noi nati nel dopoguerra in questa Europa che ha saputo vivere in pace non avevano mai vissuto una rude prova collettiva ed eravamo impreparati a vicende come quelle che ci siamo purtroppo trovati a vivere. In molti portano ancora il peso psicologico di certo smarrimento ed altri le conseguenze fisiche che solo degli irresponsabili possono ritenere una sorta di macchinazione, profittando, tra l'altro, di quelle norme sulla privacy che nascondono l'identità di chi, in servizi pubblici essenziali, crea danni contro i suoi simili. Mai prima della pandemia avrei pensato a certe privazioni di libertà, alle vaccinazioni di massa come chiave per ritrovare la normalità, a quel cortocircuito fra politica e scienza che si è evidenziato, al sorgere di fenomeni di rifiuto del vaccino fatto - lo ripeto perché fonte di sincera angoscia - di superstizioni e settarismo. Al contrario, però, ho visto la reazione civile di chi ha resistito, di chi si è impegnato per gli altri, di chi non ha perso la speranza e ha fatto il suo dovere di cittadino, guardando al futuro in certi momenti cupi. Una lezione da non dimenticare perché bisogna sempre avere esempi buoni assediati come siamo da un'informazione spesso bislacca che evoca più facilmente le notizie negative e sottostima il bene. Chi ci fa venire in mente questa citazione del sociologo Francesco Alberoni? «Il portatore di cattive notizie è, nel profondo, un pessimista, uno scettico che non crede negli esseri umani. Non crede nella bontà, non crede nella buona fede. Dovunque guardi scopre manipolazioni, intrighi, scopi disonesti. Quando viene accanto a voi e vi sussurra notizie di sventura e malignità, descrive solo ciò che ha visto. Nello stesso tempo sfoga il suo rancore verso di voi perché non siete diverso dagli altri. E, mentre vi manipola, pensa non vi meritiate nulla di meglio».