La fotografia è un modo di sentire, di toccare, di amare. Ciò che hai catturato nella pellicola è catturato per sempre… Ti ricorda piccole cose, molto tempo dopo averle dimenticate. Aaron Siskind
In un cassettone di casa ci sono le fotografie di una vita dei miei genitori, che mi rigiro fra le mani a guardarle seduto sul pavimento nella casa come vuota e silenziosa, dove certe voci non risuoneranno mai più. C’è di tutto, mischiato nel tempo, senza più alcuna logica reale di archiviazione. Fa impressione vederle ora che entrambi i miei genitori sono morti ed è un doloroso punto e a capo, che ti restituisce il senso di effimero della nostra vita. In certi casi senza di loro è impossibile ormai riconoscere certe persone ritratte, gli anni e i luoghi in cui vennero scattate. Naturalmente ci siamo anche mio fratello ed io, sin dalla nascita in poi, e molte fotografie sono state scattate da noi, quando eravamo ancora in casa. Ci sono battesimi, nozze, feste, gite. Per fortuna dominano i sorrisi e i momenti lieti. Si nota naturalmente l’evoluzione tecnica della fotografia. Si va da piccoli formati in bianco e nero, direi degli Trenta fatti con macchine semiprofessionali quando bisognava trafficare con esposizioni e altro alle istantanee degli anni Settanta dai colori squillanti scattate con le prime macchinette facili da usare. Aprendo certe scatole, sono ricordi che riappaiono alla memoria, fatti in generale di momenti conviviali che restituiscono brandelli di vita della nostra famiglia. In molti casi sono attimi così effimeri da essere destinati a scomparire con noi, come tracce disegnate sulla sabbia. Mi è capitato in mercatini dell’usato di vedere album veri e propri in vendita, che raccontano vite evidentemente spente dall’oblio di chissà quali eredi e che difficilmente avranno nuovi proprietari con un certo voyeurismo nelle vite altrui. Oggi le fotografie sono diventate poco costose, a differenza di un tempo e per nulla complicate. Non ci vuole più una macchina fotografica e il percorso di sviluppo e stampa, che creava un attimo sospeso fra la consegna in negozio e il ritiro di quanto avevamo fotografato. I telefonini che abbiamo in mano non solo permettono scatti all’infinito senza nessuna maestria tecnica o una particolare selettività, ma hanno il vantaggio di stoccare il materiale in memorie capienti. Anzi, certi apparati come il mio propongono da soli veri e propri album musicati che ricostruiscono viaggi e occasioni d’incontro. Ti spuntano d’improvviso come una piacevole sorpresa con l’inquietudine di queste intelligenze artificiali che ti spiano da chissà dove. Quale strada prenderanno un giorno queste immagini o certi filmati è facile capirlo. In gran parte spariranno con l’evoluzione tecnica, come avvenuto con vecchie registrazioni video non trasferite su nuovi supporti. O spariranno lo per mancanza di interesse, come ricordi morti in telefonini invecchiati buttati chissà dove. Triste destino in barba allo straordinario sviluppo tecnologico. Eppure il desiderio di cogliere l’attimo e imprigionarlo in un’immagine è diventato un rito collettivo. In certe situazioni, ad esempio in un luogo importante durante una gita o un viaggio, ti accorgi della logica compulsiva degli scatti, che finiscono in tempo reale sui Social. Il selfie è una potente autoaffermazione: “io c’ero!”. E tristemente conta più dell’osservazione dei luoghi dove lo si scatta.