I funerali sono sempre un momento difficile, anche se poi la situazione si gradua a seconda dell’affezione e della conoscenza con la persona scomparsa. Capita di dover partecipare alle esequie di familiari o amici carissimi o anche, per chi ha doveri pubblici, di presenziare a cerimonie in ricordo di personalità scomparse o di vittime di particolari circostanze dal clamore pubblico. Chiaro che i comportamenti, come impatto emotivo, sono diversi, ed è doloroso specie quando appunto si è toccati in affetti propri, perdendo dei propri cari. Occasione in cui spuntano quei parenti, che hanno seguito i cicli della vita: battesimi, comunioni, cresime, lauree e infine la sepoltura, in cui ci si ritrova più vecchi e spesso in dirittura d’arrivo per la stessa, ineluttabile fine.
Ci sono funerali belli e funerali brutti. Cerimonie religiose con preti che propongono omelie intense e vissute, altri che sbrigano la pratica con velocità e poco trasporto e questo avviene ad esempio con sacerdoti ormai decontestualizzati dai paesi dove si trovano, perché si aggregano più parrocchie per la crisi di vocazioni. Ho assistito a belle cerimonie laiche, per chi non crede, e ad altre in cui – sarà stata colpa del morto? – regnava una cappa di relativa indifferenza.
Per chi fa politica è normale partecipare a esequie di persone che magari non si conoscevano benissimo. Avevo un eminente collega di partito con cui capitava di trovarsi ad un funerale di questo genere. Lui, con commozione e aria dolente, si avvicinava ai parenti per le condoglianze di rito e lo vedevo visibilmente contrito anche nel momento in cui ci si avvicinava alla bara per “segnare il morto”. Più tardi gli chiedevo se conoscesse la persona scomparsa e lui rispondeva candidamente di no. Esempio di professionismo funebre.
Oggi i costumi cambiano e vedo tre direzioni. La prima, che di recente ha riguardato anche un notissimo e caro amico proprietario di pompe funebri ma ho visto molti altri casi, è quello di non volere più il proprio funerale, magari limitandosi ad una fugace benedizione o a un manifesto funebre a cose fatte. Sembrano venir meno abitudini assodate, tipo il rosario, o i ringraziamenti ad personam, sostituiti da un frettoloso necrologio post funerale. Si vuole scomparire in sordina, senza clamore, funzioni e finzioni.
La seconda è la cremazione, ormai digerita con qualche difficoltà da parte del clero, che ci fa finire in un barattolo, dopo un passaggio abbastanza impressionante per chi segue la cerimonia con la bara che scompare verso il forno crematorio. In molti poi fanno disperdere le ceneri (la Valle d’Aosta è stata fra le prime Regioni a legiferare sul tema) dove preferiscono, in genere un luogo cui è legato qualche episodio della propria vita terrena. Nei crematori sono ormai allestite sale, dove è nata l’abitudine, quasi sempre, di discorsetti di commiato, che stanno diventando abbastanza usuali anche in chiesa, avendolo visto fare nei film americani.
La terza novità è rompere il silenzio, che era invece caratteristica solenne nei momenti dell’ultimo saluto. Si è cominciato con gli appalusi e si poteva anche immaginare che fosse un omaggio consentito, anche se personalmente credo che la logica del “minuto di silenzio” affermi in maniera netta la bontà della scelta di tacere. Ora si fa chiasso e vorrei conoscere il certino che ha stabilito che il rumore e il chiasso sono il gesto intelligente per salutare un defunto. A me sembra una specie di zingarata priva di ragioni. Lo stesso vale per “la canzona preferita” di chi non c’è più, pensando invece alla bellezza di certa musica più classica o di un canto corale. Ma de gustibus, come si dice.
Che poi, alla fine, aveva ragione il grande Totò: “Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo paese, in cui però per venire riconosciuti qualcosa, bisogna morire”.