Forse un giorno, ricostruendo questi anni, capiremo meglio come l’esplosione del digitale - riassunta in maniera evidente dal telefonino nelle nostre tasche - stia influenzando in profondità il nostro modo di essere e i nostri comportamenti. Come la caricatura di certi film western, giriamo tutti con la nostra pistola alla cintola, rappresentata da questa creatura multimediale che ci attira dal mattino alla sera. Abbiamo ormai tutti consapevolezza di una certa dipendenza dal telefonino, che è poi la stessa che ipocritamente contestiamo ai più giovani, praticando però il medesimo vizio.
Ho letto un lungo e complesso articolo su Internazionale, scritto da Geert Lovink, che è un teorico dei mezzi di comunicazione. Traggo, come spesso faccio quando scrivo, alcune perle di saggezza sul tema.
Così osserva con chiarezza nella parte iniziale e la fotografia è assai rappresentativa: ”Passiamo il tempo a consultare furiosamente i nostri schermi alla ricerca di aggiornamenti, mentre piazziamo like e mandiamo messaggi, aspettando di ricevere una risposta qualsiasi. È il nostro tecno-destino, una condizione umana inevitabile. Nel suo articolo intitolato Facebook ci sta rendendo soli?, del 2012, Stephen Marche osservava che “viviamo in una contraddizione incalzante: più diventiamo connessi, più siamo soli”. Oggi non ci nascondiamo dietro un giornale aperto, ma dietro un oggetto elettronico “animato” da interazioni sociali che ci parlano, chiedono la nostra attenzione e ci portano a cliccare, rispondere e andare avanti fino al momento in cui, esausti, appoggiamo il telefono per qualche minuto, affamati di aggiornamenti”.
Per fortuna della mia generazione abbiamo ancora piena consapevolezza dell’altra vita, quella di una socialità non elettronica e possiamo ogni tanto fuggire dal rischio di una socialità fasulla, perché priva di un reale contatto umano. Ancora l’articolo: ”Una volta che il sistema registra il nostro login, la macchina dà il via ai lavori. La nostra presenza è sempre notata. Come spiega il blog The Happy Philosopher, la solitudine è un sentimento soggettivo, non uno stato oggettivo: è il desiderio di connessione. Così entriamo nell’interminabile circuito di commenti che simulano la vita sociale: con il telefono in mano, connessi a migliaia di ulteriori connessioni”.
E ancora: ”I social media creano un legame tecnosociale, non umano. E la connessione 24 ore su 24, sette giorni su sette non ci abbandona mai. Neanche per un istante. Ci saranno sempre nuovi messaggi, notifiche, aggiornamenti che esplodono in ulteriori aggiornamenti e notizie a cascata. Questo moto perpetuo è una macchina che ci cattura e c’impedisce un nuovo inizio. In termini algoritmici parliamo di camera dell’eco. Mentre “il totalitarismo impiega l’isolamento per privare le persone di compagnia umana, rendendo l’azione nel mondo esterno impossibile e distruggendo lo spazio della solitudine”, lo smartphone fa qualcosa di simile ma diverso. La differenza fondamentale è nel fattore attrattivo: desideriamo l’intrattenimento, vogliamo seguire la storia, non vediamo l’ora di rispondere”.
Più avanti Lovink cambia così ritmo: ”Perché gli statunitensi hanno smesso di uscire insieme” è il titolo di un articolo di Derek Thompson sulla mancanza di dinamismo dovuta alla rivoluzione antisocial. Il giornalista osserva che la socializzazione di persona è nettamente diminuita. Oltre a essere sempre più impegnati, “negli Stati Uniti i giovani non sono mai stati più preoccupati per la loro vita o più depressi sul futuro del loro paese”. La parola d’ordine di questa grande introversione potrebbe essere la disperazione. La situazione è particolarmente dura per i giovani adolescenti, che oggi si frequentano meno, praticano meno sport, passano meno tempo con i loro affetti, fanno meno amicizia“.
Posso confermare per una visione sugli adolescenti, perché ne ho uno in casa, mio figlio e mi pongo interrogativi e, nel limite del possibile, contromosse.
L’autore cita poi una scrittrice, Samantha Hill: ”Hill si pone una domanda inevitabile: i social media esasperano la solitudine? Mentre siamo sui social e interagiamo con altre persone in modo passivo e dispersivo, la sensazione di solitudine non sembra sospendersi, anzi peggiora. Invece di affrontare la nostra realtà esistenziale ammazziamo il tempo, scrollando una serie infinita di video, divertendoci da morire, come ha detto Neil Postman parlando dell’era dello zapping televisivo”. Già, ma la TV appare, in quel modello compulsivo, ormai in parte decotta dal piccolo schermo del telefonino.
Insomma: senza alcun moralismo o peggio una rassegnazione bisogna prendere atto di un mondo che cambia nella ragionevole speranza che si reagisca al rischio crescente di un problema serio, perché ci priva dei contatti veri e propri fra esseri umani e non lo si segnala in una logica passatista.