Guardavo da un bar di piazza Chanoux ad Aosta il piccolo corteo di studenti contro il cambiamento per il Fridays For Future, tema quello del cambiamento climatico certamente decisivo. I manifestanti si sono poi spostati davanti a Palazzo regionale rimanendo non più di una quindicina, capitanati da un ragazzo più grande di età arrabbiatissimo, che animava il gruppetto. MI sono tornati in mente i miei cortei, le assemblee a scuola, i volantinaggi con combriccole ben più numerose nella metà degli anni Settanta.
Giulio Meotti sul Foglio ha ricordato come spesso quelle nostre manifestazioni fossero, con gli occhi di oggi, fuochi fatui, facendo un parallelo fra certo giubilo odierno per i missili dell’Iran su Israele e l’avvento degli ayatollah sulla spinta delle piazze occidentali 50 anni fa.
Meotti: “Subito dopo il lancio di cinquecento missili dall’iran contro Israele, un messaggio si è diffuso rapidamente sui social e sui feed delle sezioni di “Studenti per la Giustizia in Palestina” dei campus americani, da dove dopo il 7 ottobre era già partito il coro pro Hamas: gli ayatollah avevano vendicato il “genocidio” di Israele a Gaza. La Palestine Solidarity Alliance dell’hunter College di New York ha offerto “solidarietà” all’iran. Intanto, a Chicago, trecento pacifisti si erano incontrati per discutere come interrompere la convention democratica di agosto: un attivista è salito sul palco per annunciare che l’Iran aveva colpito Israele e la folla ha esultato. La lobby del “cessate il fuoco a Gaza” si era trasformata in “non cessate il fuoco su Israele”. Non appena l’iran aveva iniziato il suo bombardamento su Israele, i pacifisti saltavano già di gioia. Dalla solidarietà alla Palestina alla solidarietà ai mullah”.
Dei cretini patentati. Ma ecco il salto indietro: “Accadde proprio questo, uno strano uccello iraniano aveva nidificato per centododici giorni nella culla dell’illuminismo per covare una rivoluzione che, una volta schiusa, avrebbe seminato morte e oscurantismo. Nel suo esilio di Neauphle-le-chateau, fuori Parigi, Khomeini fu omaggiato da giornalisti, attivisti e intellettuali. C’erano lo storico Claude Manceron e il filosofo Louis Rougier che paragonò Khomeini a Davide che trionfa su Golia. Andrew Young, l’ambasciatore americano all’onu, disse che Khomeini era “un santo socialdemocratico” e accostò la sua rivoluzione islamica all’opera di Martin Luther King. L’ambasciatore americano a Teheran, William Sullivan, paragonò l’imam a Gandhi (questo prima che i dipendenti dell’ambasciata americana venissero tenuti in ostaggio per 444 giorni). Richard Falk, giurista di Princeton e futuro inviato dell’ONU in medio Oriente con la fissa per Israele, guidò la missione americana in visita nel sobborgo di Parigi per incontrare Khomeini e sul New York Times si scaldò al fuocherello sciita dei mullah: “L’Iran può rappresentare per noi un modello”. C’era il filosofo comunista, poi cattolico e infine islamico Roger Garaudy, curatore dell’edizione francese delle opere di Lenin, innamorato del khomeinismo (“night club e cinema che hanno mostrato le produzioni più bestiali dell’occidente”, scriveva nell’omaggiare i mullah), che torna dal pellegrinaggio alla Mecca con il nome di “Ragaa Garaudy”, autore de “I miti fondatori della politica israeliana” (il libro ebbe l’appoggio dell’abbé Pierre) e invitato ad assistere alle parate militari per le strade di Teheran accanto a Khatami e Khamenei. Libération, il giornale della sinistra, titolava: “Insurrezione vittoriosa a Teheran”. Tutta la prima pagina a gloria di Khomeini. Marc Kravetz, inviato del quotidiano ed ex leader del Maggio ‘68, racconta la “prima grande notte” della rivoluzione iraniana: “Alle 21 abbiamo sentito le prime grida. Un urlo lungo e modulato proveniente dal profondo della gola. Allahu Akbar. Non era più uno slogan, un grido d’allarme, ma una musica pura, bella come il canto dei lupi. Allahu Akbar. Su tutti i tetti della città, le voci si rispondevano. Allahu Akbar. Il grido della guerra santa trovava la sua energia liberatoria nella notte, rotto dalle raffiche delle mitragliatrici”. André Fontaine, direttore del Monde, paragonò Khomeini a Giovanni Paolo II in un articolo dal titolo “Il ritorno del divino”, mentre il filosofo Jacques Madaule si domandava se “il suo movimento (di Khomeini) non aprirà le porte del futuro dell’umanità”. Michel Foucault, il filosofo, sul Corriere della Sera e sull’Obs parlò di quella di Khomeini come della “prima grande insurrezione contro i sistemi globali” “.
L’articolo prosegue con giornalisti e intellettuali italiani gongolanti a testimoniare la stupidità di quei tempi e come ci debba essere oggi come a suo tempo la bussola del buonsenso.
Ammonisce il giornalista: “Impossibile oggi ripetere quella sbornia indecente, troppe le esecuzioni iraniane delle donne e degli omosessuali, troppe le prigioni piene di giornalisti e scrittori, troppe le fosse comuni dove è finito il dissenso, troppi i rastrellamenti e le torture degli studenti. Così l’ubriacatura ha lasciato il passo al cinismo. Ci sono le università. La Sapienza ha 54 accordi con gli ayatollah. L’università di Trieste è un caso da manuale: ha più accordi con l’iran (cinque) che con gran parte degli altri paesi. L’università di Torino ha sedici accordi con Teheran, il doppio di quelli con Israele. In generale, le università italiane hanno 186 accordi con la teocrazia iraniana. E pensare che nel 2017 l’italia è stata ospite d’onore alla Fiera del libro di Teheran. Questo ovviamente prima che da Teheran partisse l’ordine di uccidere uno scrittore su un palco a New York soltanto per aver scritto un libro. Le università occidentali e i think tank sono pieni di cinici come John Mearsheimer, professore di scienze politiche all’università di Chicago, che afferma che “un Iran dotato di armi nucleari porterebbe stabilità alla regione”. Poi ci sono i partiti europei, come Podemos in Spagna, che flirtano non poco con gli ayatollah. Basta leggere la dichiarazione della segretaria di Unidas Podemos, Ione Belarra, dopo l’attacco dell’iran a Israele: “La complicità degli Stati Uniti e dei paesi europei con il genocidio del popolo palestinese sta portando a una totale destabilizzazione della regione con conseguenze imprevedibili”. Non una parola sui cinquecento missili su Israele. “Podemos, propagandista dell’iran in Spagna”, titola ABC. “Dal fiume al mare”, ruggisce lo scozzese George “Gaza” Galloway, l’amico di Saddam Hussein che faceva il bagno con Fidel Castro, che non disdegna gli abiti firmati mentre oggi guida i suoi seguaci come un religioso islamico. Il populista è appena tornato a Westminster togliendo al Labour vent’anni di dominio a Rochdale, l’ex città tessile di Manchester. Antimperialista che dice di “servire il popolo”, Galloway ha ricevuto il passaporto di Hamas, lavorato per il canale televisivo dell’iran a Londra Press TV e per al Mayadeen, il canale libanese filo Hezbollah. Se è un giullare, Galloway è uno di quelli che ci rivelano l’assurdità della nostra situazione. “Una delle armi di Hamas è l’apertura di un fronte in Europa”, dice Hugo Micheron, uno dei massimi esperti francesi di islamismo. Parlamentari inglesi e francesi sono andati a incontrare uno dei leader di Hamas Khaled Meshaal. Esponenti dei libdem inglesi sono andati a Gaza a stringere la mano a Ismail Haniyeh, quando il capo di Hamas era ancora nella Striscia”.
Terribile, cosa dire di altro? Ancora un pezzo per confermare la follia: “Dopo Parigi, gli ayatollah intanto facevano il nido alle Nazioni Unite grazie alla burocrazia transnazionale, il letto caldo dei nemici dell’occidente. Mentre lanciava i missili sullo stato ebraico, Teheran si preparava ad assumere la guida del Forum sul disarmo dell’Onu, per citare soltanto una commissione di cui fa parte. Gli ayatollah hanno ottenuto un seggio quadriennale alla Commissione Onu per i diritti delle donne, sebbene il regime iraniano sia uno dei più spietati al mondo verso il sesso femminile, che vive in uno stato di semi segregazione. Di diritti femminili si occupa anche la maggiore organizzazione dell’Onu, l’undp, il Programma per lo Sviluppo, di cui Teheran è stato a pieno titolo uno dei membri e addirittura presidente. C’è stato un delegato iraniano all’unifem, il fondo di sviluppo per le donne. E Teheran è stato vicepresidente dell’opcw, l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, e nell’unodc, l’ufficio Onu per la droga. Non male per un paese che all’Onu dovrebbe promuovere la legalità ma che, dopo la Cina, figura come leader mondiale nel numero di condanne a morte. E se non bastasse, l’Iran è stato nel board dell’Unicef, l’agenzia Onu per l’infanzia, nonostante Teheran spedisca sulla forca i minorenni (anche in questo caso con numeri da record mondiale)”.
Povero diritto internazionale…