È difficile far capire ai giovanissimi che cosa fosse per i bambini degli anni Sessanta la Televisione, che esplose nelle nostre vite con un impatto incredibile.
Io non ero ancora nato, quando iniziarono le trasmissioni del solo e unico canale Rai1 dell’epoca: era il 3 gennaio del 1954. Il segnale non arrivava dappertutto e in pochi avevano l’apparecchio per vederlo e in molti andavano nei bar che l’avevano per seguire le trasmissioni.
Non ero neppure nato, quando nacque la transizione che per tanti anni suonava per noi bambini come la premessa per andare a dormire: nel 1957 viene introdotta la pubblicità con il celebre ”Carosello”, programma simbolo nel quale lo spettacolo prevaleva sullo spot con veri e propri corti con delle storielle diventate proverbiali.
Ricordo, sempre in quella televisione senza colori, la fortunata trasmissione televisiva ”Non è mai troppo tardi”, che andava in onda prima del Telegiornale.
Per questo mi ha colpito un articolo di Francesco Erbani su questa trasmissione, pubblicato su Internazionale, che forse dirà poco ai giovani, ma ha segnato la storia della RAI ed è stata una tappa nel ruolo di alfabetizzazione della Televisione. Ricorda Erbani: ”Alberto Manzi era ed è, per tanti, il maestro di Non è mai troppo tardi, il programma televisivo andato in onda dal 1960 al 1968. Si dice che un milione e mezzo di italiani, soprattutto adulti, abbiano preso la licenza elementare grazie alle sue lezioni. Manzi era persuasivo e garbato: si presentava in giacca e cravatta davanti a una lavagna sulla quale era montato una specie di grande bloc-notes. Lo sfogliava e con un gessetto nero disegnava omini buffi, case, strade, auto, trattori, carretti tirati dai buoi. E poi vocali, consonanti, parole. Manzi era popolarissimo. E non solo tra i contadini, gli operai, le donne con il capo avvolto da un panno nero, cioè i suoi alunni che lentamente sillabavano e prendevano appunti davanti alla tv nei bar di paese o nelle case del popolo. Dappertutto in Italia il suo era il viso affabile del maestro. Quella rappresentazione di sé lo inorgogliva, nonostante fosse una persona schiva”.
Era nato nel 1924, ed il giornalista evoca un libro di Manzi, appena rieditato, ”La luna nelle baracche”, che offre un volto diverso del maestro della Televisione d’antan: ”Il libro racconta di un villaggio in un’imprecisata località dell’America Latina, dei poverissimi contadini sfruttati dal nobile don José, della loro vita difficile e di Pedro, che vorrebbe iscriversi al sindacato, ma può farlo solo se impara a leggere e a scrivere, rischiando per questo di essere picchiato e ucciso. Dal 1955 al 1976, e poi ancora fino alla metà del decennio successivo, Alberto Manzi, ogni anno, per almeno venti giorni, un mese o anche più, è andato in remoti villaggi dell’altopiano andino, tra Ecuador e Perù. Oltre che diplomato all’istituto magistrale, ha compiuto studi di biologia e il primo viaggio in Sudamerica è finanziato da una borsa di studio dell’università di Ginevra per analizzare alcune formiche amazzoniche. Ma più che dalle formiche, è attratto dagli esseri umani, dai campesinos, dalla loro miseria e dalle angherie che sopportano. Entra in contatto con una missione di preti salesiani e stringe amicizia con don Giulio Pianello (che, trasfigurato in don Julio, ritroviamo in La luna nelle baracche). Ed è così che comincia a fare scuola tra i ragazzi e gli adulti. I suoi alunni sono una quindicina: “Insegnavo l’alfabeto, a leggere e scrivere in spagnolo”, racconta Manzi, “arrangiandomi come potevo, poi loro insegnavano agli altri”. ”.
Un dietro le quinte che mostra quale fosse la sua vocazione sociale per l’insegnamento, pensando - dato che colpisce - che ancora oggi nel mondo le persone analfabete adulte, cioè sopra i 15 anni, sono in tutto 750 milioni e di questi, due terzi sono donne.
Secondo un report di qualche anno fa dell'Istat, gli analfabeti in Italia sono, invece, lo 0,6% della popolazione (339.585 persone). Mentre circa il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. Significa che non sa né leggere né scrivere? No. Vuol dire, invece, che alcune persone non sono in possesso delle abilità necessarie per comprendere a pieno e per usare le informazioni quotidiane, che abbiamo costantemente attorno a noi. Posso dire che ogni tanto se ne ha, purtroppo, la percezione?
Ma torniamo alla presenza del maestro Manzi, che ebbe non a caso una coda: ”Nel 1992 è tornato in tv con il programma L’italiano per gli extracomunitari.Per il resto la sua attività è proseguita a ritmi intensi. Ha continuato a insegnare, spesso contravvenendo ai precetti ministeriali, come quando si è rifiutaro di redigere le schede di valutazione degli alunni. Ha scritto tanti libri per bambini (il più celebre è Orzowei)”. Quando ho letto questo titolo ho avuto in flash: quel libro lo avevo letto e ne venne fatta pure una serie televisiva con canzoncina che divenne un tormentone. Raccontava la storie di Isa, un bambino bianco abbandonato nella foresta del Sud Africa, trovato ed allevato come un figlio da un vecchio grande guerriero e da una vecchia nutrice, ambedue appartenenti ad una tribù di Bantu di etnia Swazi.
È questa una storia istruttiva, con episodi di razzismo al contrario, che mi colpì molto per capire come ci sia sempre nelle cose un rovescio della medaglia.
Restano nella memoria la gestualità e la bonomia di quel maestro, che spuntava con aria educata da quell’oggetto cult che era la televisione di un tempo. Troneggiava nel soggiorno di casa come nuovo mobile, segno del boom economico. Una sorta di focolare domestico con la timidezza del bianco e nero. Oggi, invece, il televisore è segno di opulenza con dimensioni sempre più grandi e i colori vividi di un Luna Park.