C’è nel dibattito politico sempre più l’uso di parole forti e parolacce scurrili. Esiste certo un limite da non superare non solo per bon ton, ma per rispetto delle Istituzioni.
Deve operare educazione e senso del limite più per regole condivise che per paura di eventuali sanzioni. Certo non bisogna neppure far finta che le assemblee parlamentari siano come un convento di orsoline e nella tenzone oratorio (mai con l’uso della violenza fisica!) qualche tono acceso ci sta.
Alla Camera, quando ero Segretario di Presidenza, ho dovuto assistere e poi discuterne nell’Ufficio di Presidenza di certi eccessi fisici e verbali. Altrimenti, quando non si supera il livello di guardia, anche nei commenti a latere dei discorsi di altri (dette “interruzioni”, che fanno parte del verbale della seduta) si può legittimamente far entrare commenti puntuali e battute ficcanti, che sono il sale della dialettica parlamentare. Ma più in generale oggi si usano parole che sembrano sbracare rispetto al loro significato storico.
Scrive acutamente sul Corriere la scrittrice Dacia Maraini: ”Strano destino quello della parola fascista che viene usata sia come un semplice aggettivo, sia come la memoria che racconta una epoca di gravi errori politici e storici. Stupisce quando proprio coloro che agiscono secondo i criteri autoritari e intolleranti del fascismo adoperano la parola per denigrare l’avversario. Peggio avviene con la parola nazista, da tutti considerata l’espressione del peggio che l’essere umano abbia inventato. Eppure nazista è diventato un insulto che si rimpallano capi di Stato e generali che praticano intolleranza e autoritarismo, per screditare il nemico. Abbiamo sentito Trump, tanto per citare un caso, gridare che l’America è diventata fascista e nazista perché i giudici l’hanno condannato per le sue malefatte. Cosa pericolosissima, a prescindere dal caso personale, perché mette in discussione una istituzione fondamentale come la magistratura”.
E poi avanti: “Le parole, ricordiamolo, non sono solo suono, hanno una storia e un significato preciso che bisognerebbe insegnare e conoscere. La scuola, a quanto mi risulta, non lo fa. Non che sia proibito studiare il fascismo, ma di solito non si arriva a raccontare le vicende del regime e dell’ultima guerra perché le classi troppo numerose rendono impossibile tenere testa ai tempi stabiliti. Ma forse, aggiungerei, anche perché molti insegnanti non vogliono prendere posizione su qualcosa che ci riguarda ancora oggi. Così però la parola fascista ha perso la sua valenza storica tanto importante per capire il presente, scadendo a termine che esprime un generico principio di negatività. Quanti giovani che usano la parola fascista come un insulto o al contrario come un valore da esaltare conoscono la storia di quel periodo, di quel regime, dei danni che ha fatto al nostro Paese umiliando il Parlamento, soggiogando le istituzioni, accettando le orribili leggi antisemite, assassinando gli avversari, imbarcandosi in una guerra stupida e ingiusta? Per queste ragioni sarebbe bene fermare per un momento questo disordine linguistico e riflettere su quello che c’è all’interno delle parole: che cosa ricordano e come vivono dentro di noi in tempi diversi, senza trascurare i fatti e le azioni da cui sono nate”. Già, bisogna usare termini, avendone consapevo
lezza. Anche il termine comunista, usato nella polemica politica, finisce per essere un termine astratto nel suo significato offensivo.
Intendiamoci: chi ha una visione federalista, come chi vi scrive, senza finire nei luoghi comuni bolla le dittature come un tutt’uno e lo si fa senza dimenticare le storie e la Storia degli uni e degli altri, ma guardando al mondo di oggi e alle derive autoritarie di qualunque colore esse siano. E, nella crisi globale della democrazia, proliferano dittatori veri o aspiranti sotto qualunque -ismo si celino.