La guerra io l’ho vista con i miei occhi, come spettatore, sul declinare della guerra dei Balcani, quando gli ultimi bagliori chiudevano una pagina terribile con stragi che restano come ammonimento nel libro nero della ferocia umana.
Altrimenti certe vicende le avevo avute nei racconti della mia famiglia: nonno Emilio con la guerra di Libia e la Prima guerra mondiale con storie che noi nipoti stupidini ascoltavamo senza avere contezza del dolore; mio papà Sandro “giusto” per la comunità ebraica di Torino per l’aiuto all’espatrio degli ebrei verso la Svizzera e poi da militare finito ad Auschwitz fonte di angoscia nascosta nella vita; mia mamma che era ragazzina che raccontava dei bombardamenti e delle fughe in campagna e della fame nera. Ma altri parenti testimoniavano, ciascuno con la sua storia: zio Séverin in Svizzera esule perché rischiava la vita in Valle perché antifascista senza mai la tessera del Fascio; zio Émile in campo d’internamento in Germania come mio papà e amico fraterno di Émile Chanoux; zio Mario partigiano ragazzino a 16 anni che imparò;,zio Antoine capo della Resistenza comunista dentro la Cogne (che non ho conosciuto, essendo morto il giorno della Liberazione di Aosta per un tragico incidente); zia Eugénie sospesa dall’insegnamento perché non portò la sua classe ad un funerale di un gerarca.
Fin da ragazzino leggevo avidamente quanto mi interessava: la ritirata di Russia, la lotta di Liberazione, la guerra del Vietnam, le biografie di tante personalità che con la guerra avevano avuto a che fare.
La passione per la Storia grande e piccola, approfondita a scuola con al Liceo Classico persino le versioni che raccontavano le battaglie o storie straordinarie come l’Iliade e poi l’Università con esami specifici che consentivano di capire più a fondo e di darsi un metodo.
Quel che alla fine ne ricavi è un fil rouge, rosso di sangue, che attraversa la nostra umanità sin dagli albori con la scoperta banale che grandi dei passi in avanti della tecnologia, dalla clava all’Intelligenza Artificiale, sono nate per fare del male al proprio nemico vicino o lontano. Questa carica di violenza fa parte del nostro modo di essere ed è inutile essere ipocriti, specie con la minaccia nucleare che può far scomparire l’umanità.
Immaginiamo di essere davanti ad una gigantesca lavagna e di mettere in fila le guerre che si stanno combattendo oggi nel mondo. Prendo un dispaccio ANSA di qualche tempo fa che racconta: “E’un quadro globale alquanto fosco quello che si evince dai dati raccolti dal Conflict index 2024” (Indice dei conflitti), il rapporto annuale pubblicato a gennaio 2024 dall’Acled, l’organizzazione non governativa che si occupa di monitorare i conflitti nel mondo. Basti pensare che nel 2023 i conflitti sono aumentati del 12% rispetto al 2022 e di oltre il 40% rispetto al 2020. Una persona su sei vive in un’area in cui vi è un conflitto attivo. Nei 234 Paesi e territori analizzati, la maggioranza – 168 – ha visto almeno un episodio di conflitto nel 2023. In totale, si registrano oltre 147mila eventi di conflitto e almeno 167.800 vittime. Ben 50 paesi sono caratterizzati da conflitti definiti come “estremi”, “elevati”o “turbolenti”. L’aggiornamento 2024 dell’Indice valuta i livelli di conflitto in base a quattro indicatori chiave: mortalità, pericolo per i civili, diffusione geografica del conflitto e frammentazione dei gruppi armati. I 50 Paesi con i tassi di conflitto più alti sono interessati di fatto dal 97% di tutti gli eventi registrati nel 2023. Ucraina, Myanmar, Messico e Palestina occupano i primi quattro posti in base a ciascuna categoria”.
Prosegue la lettura da brivido: “La distribuzione geografica dei 50 Paesi più violenti in assoluto (tabella seguente) mostra che due di questi si trovano in Africa: si tratta di Nigeria e Sudan, con quest’ultimo che continua a peggiorare a causa delle costanti uccisioni di massa. Tre Paesi si trovano invece in Medio Oriente - Palestina, Yemen e Siria -, a riprova delle profonde criticità che persistono nella regione da decenni, mentre nel continente asiatico è il Myanmar l’unico Paese con estrema violenza. Infine, quattro dei dieci luoghi estremamente violenti si trovano in America Latina e sono Messico, Brasile, Colombia e Haiti. In questi Paesi non esistono grandi guerre tradizionali, ma piccoli conflitti multipli, mortali e pervasivi che rappresentano un fattore costante di instabilità sia nei Paesi in via di sviluppo che in quelli più sviluppati. Infatti per i gruppi armati la violenza è lo strumento più efficace a loro disposizione nella competizione per il potere e il controllo del territorio”.
Niente di nuovo sotto il sole e questo non ha nulla di consolatorio. Ha scritto la grande giornalista Oriana Fallaci, cronista anche di guerra: “Dev’esserci qualcosa di sbagliato nel cervello di quelli che trovano gloriosa o eccitante la guerra. Non è nulla di glorioso, nulla di eccitante, è solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere”. Per cui capisco la speranza e pure il candore dei molti pacifisti in buona fede, che sperano che un giorno questo Male venga estirpato. Ma sia chiaro che esistono guerre giuste e l’esempio più vicino e più lampante è stata la guerra vinta contro il nazifascismo e se certi pacifisti non avessero predicato utopie strampalate la guerra non sarebbe stata così lunga e terribile. E questo oggi vale per chi rappresenta come soluzione per la guerra di aggressione della Russia verso l’Ucraina il fatto banale che gli ucraini si arrendano, come se dietro al progetto folle di Putin non ci fosse un’aggressione dietro l’altra alla ricerca di quell’espressione già sentita dello “spazio vitale”. Certi pacifisti all’italiana, imbevuti di ideologismi disprezzabili, dovrebbero essere isolati e vituperati.
Ho goduto a lungo della sconfitta elettorale alle Europee del mediocre giornalista Michele Santoro, tribuno del popolo su Raitre per molti anni, e della sua compagnia di giro. Esempio tangibile di un pacifismo, come si dice, pacifinto.