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16 ago 2024

La forza dell’intervista

di Luciano Caveri

Ricordo quando facevo il giornalista radiotelevisivo e non pensavo per niente ad un’eventuale carriera politica. Ero a cavallo fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, prima di essere travolto dall’inattesa elezione alla Camera.

Alla Rai, dove approdai dopo radio e tv private, mi trovai a vivere su due fronti: da una parte il gazzettino radiofonico, La Voix de la Vallée con Montagnes Valdôtaines come sigla (provarono a toglierla e feci un gran casino), che era una tradizione dagli anni Sessanta; dall’altra, il Telegiornale regionale che rappresentava una novità con il decentramento che finalmente appariva sullo schermo come antidoto del servizio pubblico all’esplosione delle emittenti private (io iniziai nella straordinaria Radio Tele Aosta, RTA, morta poi dopo per consunzione).

Ci penso oggi, evitando almeno per ora un eccesso di memorialista che sa di vecchio (per altro è la realtà, che mi piaccia o meno), perché il cuore dell’estate (e a Ferragosto inizia la discesa verso la sua fine) evoca il gran rovello per chi, come un artigiano, costruiva radiogiornali e telegiornali in giorni di magra di notizie.

Eravamo pochi in redazione e per me, appassionato di un mestiere che avevo scelto, fare il giornalista voleva dire - quando non c’erano agenzie stampa o informazione dal Web - ingegnarsi a cercare qualcosa di originale per riempire degnamente i minuti a disposizione e talvolta capitava di doverlo fare quasi da solo.

In un periodo sabbatico dalla Politica, poco più di dieci anni fa, mi ritrovati responsabile dei Programmi valdostani e così mi capitò, spesso in radio, di riprendere il fil rouge del mio lavoro con trasmissioni mie. Ci pensavo in questi giorni a questo passato più recente e a quello più remoto e l’occasione è stata sfogliare, pur digitalmente, Sette, il supplemento del Corriere della Sera. Nel numero ferragostano, evidentemente preparato per tempo per consentire le ferie alla redazione, ci sono numerose interviste a personalità varie.

Noto che è tornato molto questo genere dell’intervista. È importante in televisione - e maestro fu Maurizio Costanzo, che pure ho conosciuto di persona - e oggi è un tipo di giornalismo troppo spesso usato come riempitivo e nelle mani di incapaci raccomandati ed è tornato ad esserlo sulla carta stampata, che si sta battendo per non morire.

Così mi è venuto da pensare quanto mi piacesse intervistare sin da ragazzo. È un esercizio non semplice come potrebbe sembrare. Devi creare un legame con l’intervistato e in tv come in radio l’interlocuzione non deve essere un esercizio di vanità del giornalista, che deve saper ascoltare e piazzare interruzioni e domande, seguendo un certo ritmo con logica e capacità di spezzare la conversazione quando rischia di perdere di interesse.

Il risultato è soddisfacente solo se, in una manciata di minuti o in più tempo (e quando tornai in radio avevo spazi ampi) riesci ad ottenere il risultato di riuscire a “far aprire” il tuo ospite, cercando temi di interesse. Certo conta la tua capacità nel farlo e anche la capacità del tuo interlocutore nell’esprimersi. Ricordo una donna di spettacolo, grande intrattenitorice sulla scena, che si rivelò essere difficilissima da intervistare. Io ponevo domande e lei rispondeva letteralmente a monosillabi e ogni tentativo di allungare il brodo risultava impresa ardua. Così come, invece, può capitare l’ospite che come un fiume in piena non si riesce a contenere in risposte che sono difficili da spezzare.

Resta, comunque sia, la bellezza dell’intervista, come mezzo per scavare nei pensieri e nelle idee di un’altra persona e, se ti accorgi che ha funzionato. hai la soddisfazione di aver fatto bene il tuo lavoro.