Ho avuto una serie di pensieri guardando Hanno ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883, la serie su Max Pezzali e Mauro Repetto in onda su Sky.
È una storia che si dipana con due elementi: è uno spaccato degli anni Novanta e la dimostrazione della energia che può venire dal mondo della provincia italiana.
I due protagonisti principali, una decina di anni meno di me, hanno vissuto una storia singolare, fondando un gruppo musicale in…due, trafficando con certe prime tecnologie elettroniche, che oggi in epoca di digitale fanno sorridere. Compagni di scuola, affondati in una noia della Pavia di quegli anni, con quella situazione per nulla singolare di una svogliatezza a scuola, mista alla ricerca di una strada da seguire.
Nel loro caso - e qui sta l’originalità - diventano musicisti e cantanti senza conoscere la musica e seguendo il filone all’inizio con una passione acerba che nella serie tv è frammista a motivi sentimentali o forse ormonali. Trovo interessante come il loro successo sia transitato attraverso il boss di Radio Deejay dell’epoca, Claudio Cecchetto, che a dire il vero non appare come lo scanzonato inventore del Gioca Jouer - che ancora impazza nei villaggi vacanze - ma nelle vesti di un boss balzano e spregiudicato. Per altro è di oggi la rottura violenta fra Pezzali (rimasto solo senza Mauro, ormai da tanti anni, avendo il socio scelto altra vita) e Cecchetto, che mostra la stranezza di un rapporto durato molto tempo.
Quel che è interessante è che emerge come negli anni Novanta il motore della discografia transiti attraverso la forza delle radio private, che avevano ormai dismesso quell’aggettivo “libere” che aveva abbacinato la mia generazione e io ci sono stato dentro nei primi anni del mio lavoro.
Il secondo aspetto - e lo scrivo considerandomi fieramente un provinciale - è la forza delle comunità locali, talvolta considerati solo asfittici mondi antichi, che sono invece in grado di esprimere novità. Il mito delle grandi città, ancora alimentato, è del tutto comprensibile, ma la vita anche in posti apparentemente remoti può essere uno stimolo a trovare strade nuove e a celebrare, in questo caso specifico, la figura urbana dell’Uomo Ragno, partendo - lo si capisce nella serie - da un incontro al bar, luogo centrale ancora oggi per la socialità.
C’è una bella frase di Elie Wiesel, che fa capire in modo efficace la vacuità dell’accusa di ”provincialismo”, inquadrandola in un contesto più ampio: ”Non potremo mai capirci, finché siamo perfetti capri espiatori: per il cosmopolita, siamo provinciali; per il provinciale, siamo cosmopoliti; per i comunisti, siamo capitalisti; per i capitalisti, siamo comunisti; per i nazionalisti, siamo internazionalisti; per gli internazionalisti, siamo nazionalisti; per i religiosi siamo eretici; per gli eretici, siamo religiosi”.
Guardando questo lavoro sugli 883, penso che molte cose somiglino ai miei anni Ottanta, perché fra i due decenni restavano parecchie analogie. Quando si cresce, si hanno sentimenti sempre simili e li si sfoga secondo situazioni, tendenze e mode.
Gli anni Novanta, in cui ascoltavo gli 883 senza conoscerne le vicende singolari che oggi scopro, sono stati per me trentenne anni pieni ed importanti: cavalcavo la politica con grande energia e a Roma, da deputato, collezionavo ruoli ed esperienze che oggi tornano utili e rivedo con gioia e senza nostalgie. Il matrimonio, la nascita dei figli si mischiavano a lotte politiche valdostane e ad un certo punto mi ritrovai persino ad essere l’unico dell’Union Valdôtaine con un ruolo apicale. Si cresce, si matura, si sale e si scende.
Gli anni Novanta, specie con Tangentopoli che cambiò l’assetto dei partiti in Italia con inchieste che fecero epoca e che oggi si rileggono con spirito critico, furono una discontinuità nella storia della Repubblica. In quella situazione tempestosa macinai una serie di successi, sia sul piano finanziario che statutario per la Valle d’Aosta e purtroppo so che queste appaiono questioni tecniche ed invece sono state profondamente politiche per l’Autonomia valdostana. Ma questa - capisco - è autocelebrazione.
In certi momenti più tristi in politica, molto tempo dopo (ma le difficoltà che seguono a momenti brillanti ti scuotono positivamente), ho sempre avuto l’idea che demordere è la vera sconfitta.
Come in una canzone degli 883: ”E il meglio deve ancora arrivare nei doni che la vita ci porterà/ il meglio è ancora tutto da fare sfruttando a fondo ogni opportunità/ senza subire il destino, con tanta forza di volontà/ senza temere nessuno, perché noi possiamo farcela”.
Saranno strofe banali, che suonano però simpaticamente come programmatiche.