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09 giu 2025

Ragionare sul digitale

di Luciano Caveri

Bisogna necessariamente sforzarsi di capire le giovani generazioni e l’impatto su di loro delle novità tecnologiche. Per altro basta fare di necessità virtù, pensando a come certe novità colpirono generazioni come la mia.

Vorrei ricordare alcuni passaggi.

L’arrivo della Televisione, diffusasi quando ero un bambino, ha avuto un impattò incredibile e ha aumentato di energia con l’avvento negli anni Settanta della liberalizzazione del sistema radiotelevisivo, che ho vissuto in modo attivo e non solo da utente.

Intanto iniziava la scalata al mondo digitale: il Commodor 64, poi il Mac e Internet, che si fonde poi con la telefonia mobile. Intanto emergono, dapprima con tenera ingenuità, i videogiochi.

Da bambini ad adulti in una continua rincorsa, che non si si ferma neppure in una vecchiaia che oggi si pone sfide nuove, come l’uso e la comprensione dell’Intelligenza Artificiale.

Questo per dire che non bisogna stupirsi delle novità che sconvolgono abitudini e modi di fare e di essere, ma sono le Regole, il Diritto, l’Educazione quanto necessario per creare le condizioni affinché le tecnologie innovative e le loro conseguenze riducano al minimo gli effetti nocivi.

Leggevo su Repubblica un articolo dello psicoanalista e saggista Massimo Recalcati, che con lucidità affronta una sfida di cui sono spettatore e protagonista come padre di un adolescente iperconnesso, vale a dire costantemente connessi a internet e ai dispositivi digitali.

Recalcati non perde tempo in premesse: ”La diffusione crescente tra le nuove generazioni dei cosiddetti disturbi dell’attenzione (Add: Attention deficit disorder) merita una attenzione particolare. Un eccesso di stimolazioni al quale i nostri figli sono sottoposti continuamente dagli oggetti tecnologici e dalla nuova videocrazia consumistica — videogiochi, Instagram, TikTok, Facebook ecc — sembra nuocere alla dimensione necessariamente concentrata dell’attenzione.

Il passaggio repentino da un breve video all’altro, la successione incalzante delle immagini, il bombardamento disordinato delle informazioni, sono, come le definirebbe Bernard Stiegler, “psicotecniche” che minano alle radici la possibilità di sviluppare un pensiero critico esercitando delle forme di captazione dell’attenzione tali da distruggerne la natura”.

Il ragionamento incalza: ”La dimensione dell’attenzione profonda (deep attention) viene infatti devastata da una hyper attention che frammenta il movimento del pensiero. Si tratta di una vera e propria cultura della sovrastimolazione che finisce per disturbare l’attenzione e, di conseguenza, la possibilità stessa del pensiero.

L’iper-attenzione non è, infatti, una amplificazione dell’attenzione, ma la sua più totale disattivazione. È la stessa logica del consumo che prevale nel neo-liberismo, la quale, se spinta all’eccesso, finisce per consumare lo stesso consumatore. Tutto sembra scorrere in una superficie senza rilievi e addensamenti, senza pause e discontinuità”.

Qui il tema si fa inquietante e colpisce non solo i giovanissimi, per quanto Recalcati denunci l’impatto sui giovanissimi: "L’apprendimento e la formazione stessa di una intelligenza critica sono le prime vittime di questo affollamento inaudito di stimoli. In primo piano è una vera e propria intossicazione cognitiva ed emotiva. Il deficit di attenzione non sorge clinicamente da una mancanza di stimoli, ma dalla loro moltiplicazione abnorme.

Ne è una prova evidente l’angoscia che può invadere certi giovani di fronte alla separazione dai loro oggetti psicotecnici. Il vuoto e l’assenza che si palesano anziché essere vissuti come necessari per l’elaborazione di un pensiero generativo, diventano fonti insopportabili di stress o di assoluta noia.

L’iper-solleccitazione, e l’iper-captazione della loro attenzione, si rovescia così nel suo contrario rappresentato dal deficit di attenzione. È un effetto dell’iperattività smodata di quello che Lacan definiva come discorso del capitalista, il quale sfrutta la forza della pulsione per dissipare più che per costruire, per distruggere più che per collegare.

Il vero sapere, quello in grado di contribuire alla formazione della vita, non sarebbe più quello dispensato dalla scuola, ma quello che si genera attraverso questa nuova videocrazia. In gioco è la distruzione di quello che Bion definiva come l’apparato per pensare i pensieri. La psicotecnica ipermoderna sembra infatti dissolvere ogni apparato per favorire una versione fluida e senza bordi del sapere. In questo modo le informazioni e le stimolazioni percettive accelerano un processo di incorporazione non sostenuto da un contenitore adeguato.

Tutto passa e sembra scivolare via senza lasciare né tracce né depositi mnestici significativi. È il carattere paradigmatico che assume lo zapping come nuova forma ipermoderna di accesso al sapere. In questo modo il flusso pulsionale del godimento va alla deriva generando un ottundimento di fondo che può, appunto, prendere le forme del deficit di attenzione.

La cultura di massa si polverizza in questa nuova specie di consumo. I suoi miti e le sue icone si diffondono seguendo la logica orizzontale dello sciame più che quella verticale dell’idolo.

È quello che accade anche in riferimento all’intelligenza: lo stravolgimento dell’attenzione attraverso il bombardamento sistematico di stimolazioni allontana le nuove generazioni dallo sforzo del pensiero critico favorendo una versione solo performativa dell’intelligenza”.

Il linguaggio é certamente tecnico e i riferimenti a diversi autori stimolante, come si accentua nella parte finale dell’articolo: ”Se le si confronta al potere centralizzato, decritto mirabilmente da Pasolini nei primi anni Settanta, della televisione, le attuali industrie culturali audiovisive si ramificano in modo inedito. La loro forza pervasiva ha travolto il vecchio sistema della comunicazione di massa fondato sulla centralità della radio e della televisione che non a caso i giovani non ascoltano né guardano più.

In questo modo né la famiglia né la scuola possono pretendere di governare il carattere inarrestabile di questo flusso. L’attenzione dei nostri figli viene continuamente sviata da dei dispositivi che distruggono la dimensione liberamente contemplativa del pensiero.

Gli spazi educativi che la famiglia e la scuola rendevano disponibili sono travolti da una dislocazione del sapere che non è più a loro disposizione. Gli insegnanti lo sanno molto bene: la loro battaglia quotidiana ha come obiettivo primario, tanto elementare quanto cruciale, la possibilità di captare l’attenzione degli allievi di fronte a un collasso del dispositivo istituzionale e culturale che rendeva la parola dell’insegnante degna di attenzione in quanto tale”.

Il ragionamento resta come sospeso al limitare della questione capitale. Che fare? Proibire, limitare, educare?

Mentre se ne discute intere generazioni si formano senza limiti e con le conseguenze ben descritte.

Trovo che abbia ragione Aldo Grasso che così si occupava ieri della materia sul Corriere: ”La comunicazione digitale non è più a misura d’uomo, sprigiona una potenza tale che ci sovrasta, siamo prigionieri degli algoritmi che informano, intercettano, manipolano a nostra insaputa. All’aumento incontrollato della comunicazione decresce la comprensione reciproca: per paradosso, la connessione globale divide, spalanca le porte al lato oscuro della rete.

Se c’è una materia principale che la scuola deve fare propria è l’uso cosciente del digitale: la didattica dovrebbe guardare avanti, imparare le poesie a memoria non risolve il problema e non basta mettere in castigo il mutamento tecnologico quando c’è una nuova grammatica da studiare. Non si vieta ciò che va compreso”.