Gianfranco Fini "rompe" con Silvio Berlusconi e si prefigura una scissione dal Popolo della Libertà con anzitutto la creazione di gruppi autonomi in Parlamento. Il fatto - che potrebbe avere in futuro ripercussioni anche in Valle, dove il PdL riflette equilibri nazionali - non può essere liquidato con leggerezza nella categoria "pettegolezzi", perché si tratta di un passaggio politico di rilievo e non trasferibile solo sul piano di quanti voti conterebbe questa nuova forza politica, perché in democrazia i voti vanno e vengono e spesso la difesa delle proprie convinzioni è un investimento per il domani. Fini ha fatto una scelta di questo genere per riacquistare la sua autonomia rispetto ad un PdL nato, come si dice in francese, in una logica "plurielle" e diventato, infine, un partito personalista del premier che, nella sua solitudine e umoralità, fa e decide nell'asse piuttosto esclusivo con la Lega ed Umberto Bossi, un altro leader che decide da solo. Questa "personalizzazione" della politica, che naturalmente è una chiave di lettura evidente in queste vicende, appare in questa fase storica una fragilizzazione della democrazia rappresentativa, perché legata ad un dilagare della politica come clientelismo, affarismo, segretezza e opacità nel solco della demagogia e del populismo che da sempre hanno accompagnato i sogni autoritari. Quando i leader oltrepassano una certa linea, bruciando tutto con il napalm dietro di loro, nella paura di condividere il potere, la deriva è evidente. Così facendo il partito diventa "loro" e rischia di seguire esclusivamente le fortune e le sfortune del "capo".