Mi ha sempre divertito moltissimo parlare con i bambini, specie quando sono piccoli e la spontaneità dei loro pensieri e la freschezza di certi ragionamenti, che purtroppo si inceppano crescendo, creano delle miscele fantastiche, perché rompono certi schemi mentali che diventano insormontabili in età adulta. Mi è capitato in passato ed anche oggi di origliare certi discorsi che fanno fra di loro ed apprezzare quel loro dialogare che appare più libero di tutte quelle sovrastrutture che noi costruiamo nel nostro conversare di adulti. Confesso di avere sempre parlato con i miei figli piccoli senza storpiature di parole o vocine melense, considerandoli essere umani in scala ancora ridotta, come i bonsai stanno alle piante e dunque non vanno trattati come se fossero dei minus habentes.
Ha detto Bruno Munari: «c'è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di "ciccì" e di "coccò" e di "piciupaciù". Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri». L'altro giorno Riccarda Zedda nella rubrica "In Famiglia" sul "Sole - 24 Ore" mi ha fatto ragionare sul nostro approccio con i bambini, che è fatto spesso di frasi fatte, ripetitive per andare a colpo sicuro. Ricordo mio padre, specie invecchiando, quando chiedeva a bambini che spuntassero nei suoi pressi: «ma ce l'hai la fidanzata?». Immagino che pensasse, essendo uno sempre spiritoso, che si trattasse di un approccio scherzoso, ma in realtà ho visto che spesso l'uscita lasciava interdetti i piccini, di fronte a questo "grande" che faceva un'intrusione da adulto. Analogamente osserva Zedda: «non sono sicura che si usi ancora chiedere ai bambini che cosa vogliono fare da grandi, ma immagino di sì. D'altronde è una domanda buona per tutte le occasioni, il classico rompi-ghiaccio quando ci si trova davanti ad uno scolaro delle elementari e non si sa bene di cosa parlare. Domandarlo, invece, ad un liceale potrebbe comportare qualche rischio: potrebbe non essere d'accordo né con la prima parte della frase (il voler fare qualcosa) né con la seconda (il dover ancora "diventare grande"). Lo psicologo e scrittore Adam Grant ha di recente lanciato sul "New York Times" un dibattito proprio sulla "normalità" di questa vecchia domanda: che effetto fa ai bambini sentirsi domandare che lavoro vogliono fare da grandi? Secondo Grant, si tratta di una domanda che chiude inesorabilmente gli orizzonti della loro immaginazione. Come? In almeno tre modi. Primo: obbliga i bambini a pensarsi solo in termini del loro ruolo lavorativo, come se da questo dipendesse interamente l'espressione del loro valore. E' una domanda che non lascia spazio a risposte più ampie, come per esempio "voglio essere una persona onesta" oppure "un bravo genitore". Sarebbe interessante ascoltare più esperienze dirette. Nel mio caso, per esempio, questo effetto di limitazione aspirazionale non l'ho visto: la mia primogenita vuole fare la gelataia e il mio secondogenito l'inventore di trucchi per comici. Secondo: questa domanda sembra implicare che tutti abbiamo qualche talento che ci chiama ad essere utilizzato, lo psicologo lo chiama "calling". E dovrebbe essere il "calling" a dire ai bambini qual è il mestiere scritto nel loro futuro. Ma quante volte succede davvero che un talento si trasformi in una professione? Quando nelle scuole echeggia la frase "potrai essere tutto quello che vuoi", secondo il comico Chris Rock qualcuno dovrebbe aggiungere "se stanno assumendo in quel ruolo". Terzo, per chi ha ancora l'energia di obiettare che si tratta tutto sommato di una domanda innocente: se i bambini hanno delle aspirazioni, finiranno quasi certamente frustrate dalla vita. Fortunati quindi quelli che crescono in tempi di recessione, la cui unica aspirazione è portare a casa la pagnotta: vivranno una vita molto più soddisfacente di chi ha avuto inutili sogni di gloria. Al limite si potrebbe invece chiedere, conclude l'autore, "che problema del mondo vorresti risolvere?", rassicurandoli così sul destino che li aspetta: risolvere i numerosi problemi lasciati dai grandi. In conclusione, la prossima volta che dovrete intrattenere un bambino per cinque minuti, per evitare di innescare una serie infinita di frustrazioni e false aspirazioni, il suggerimento è di parlare di gusti di gelato e videogiochi. Chissà se poi si chiamano ancora così». Sul gelato credo che si vada abbastanza bene, sui videogiochi o si è preparati in materia o si rischiano figuracce. Anche a me, comunque, hanno chiesto tante volte da bambino cosa volessi fare. Racconti familiari sostengono che sfuggissi abbastanza la questione ed, a seconda dell'umore, passavo dal consueto "astronauta" - adatto negli anni della scoperta dello spazio - al più prosaico "pasticciere", direi per golosità. Fatto certo è che, almeno da adolescente, mi sono cristallizzato su "giornalista", oggi miei figli - quelli ventenni - studiano ma senza intravvedere con certezza una risposta a «Che cosa farete da grandi?». E, per altro, "grandi" già lo sono!