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14 mar 2024

Il lavoro dei glaciologi

di Luciano Caveri

Ho cominciato ad avere a che fare più a fondo con i glaciologi in occasione dell’Anno Internazionale delle Montagne. Non è che ne sapessi molto di loro in quell’inizio degli anni Duemila. Certo che i ghiacciai li avevo visti – e ben più corposi di oggi – e ne avevo risaliti alcuni con i ramponi e piccozza, anche dove oggi ci sono desolanti pietraie. Scoprii in alcuni incontri la passione dei glaciologi, che studiano le loro “creature” con un grande amore e ne parlano come se fossero – e in parte lo sono – esseri viventi.

Ricordo quando da bambino con mio papà scendevamo ad Ivrea e osservavamo la linea dritta del rilievo della Serra e lui mi raccontava di come fosse il frutto dei ghiacciai valdostani. Poi, nel tempo, ho capito cosa fosse l’anfiteatro morenico del Canavese e naturalmente come la Valle d’Aosta di oggi sia il frutto del sommovimento delle montagne, del lavorio dei ghiacci e delle acque.

Da giornalista Rai cominciai a fare reportage sui giacchiai e anni dopo divenni amico di uno degli studiosi dei ghiacciai, Luca Mercalli, che più di tutti, in modo suggestivo e con un focus particolare sui ghiacciai sofferenti del Gran Paradiso, racconta della strenua lotta dei ghiacciai che cercano di sopravvivere al cambiamento climatico,  di cui sono esempio macroscopico.

Ricordo le interviste  ad un altro mio amico, Willy Monterin, che nel nome del papà celeberrimo glaciologo, era come un custode dei ghiacciai del suo Monte Rosa. Il padre era Umberto Monterin (lo stesso nome del nipote, purtroppo prematuramente scomparso), che la Treccani così descrive e di recente proprio su di lui il Forte di Bard aveva messo in piedi una straordinaria mostra evocativa delle sue gesta. La Treccani così lo descrive: “La nascita avvenne nell’antica casa di famiglia situata fra i casolari di D’Ejola a 1850 m d’altezza, sopra Gressoney la Trinité, a un’ora di distanza dal ghiacciaio del Lys, che fu oggetto di alcuni fra i suoi più importanti studi di glaciologia e meteorologia. Laureatosi in scienze naturali presso l’Università di Torino il 16 luglio 1912, compì un viaggio d’istruzione in Germania e dopo un breve periodo di insegnamento presso un istituto medio di Alba, fu chiamato alle armi e partecipò alla prima guerra mondiale come artigliere. Congedato il 1° maggio 1919, iniziò la sua attività di scienziato e ricercatore come assistente presso l’Istituto di geologia dell’Università di Torino, allora diretto dall’illustre geologo Carlo Fabrizio Parona. Con la guida di quest’ultimo Monterin approfondì la sua preparazione geologica e iniziò ricerche originali sulla geomorfologia e la geologia delle Alpi. Nel 1925 vinse brillantemente il concorso bandito per un posto di direttore degli osservatori del Monte Rosa. Le competenze sugli strumenti di osservazione meteorologica e sulle tecniche di raccolta ed elaborazione dati gli vennero dal tirocinio compiuto presso l’Istituto di fisica dell’Università di Firenze, mentre le sue qualità di montanaro e di abile alpinista gli permisero la sorveglianza e la ristrutturazione della rete di osservatori che si estendeva dai 1850 m di D’Ejola fino ai 4560 m della Punta Gnifetti del Monte Rosa. Come direttore potenziò, fra l’altro, l’Istituto Angelo Mosso, situato a 2901 m fra il Piemonte e la Valle d’Aosta, che venne inaugurato il 27 agosto 1907 alla presenza della regina Margherita. Nel 1932 conseguì la libera docenza in geografia alpina e tenne corsi di geografia fisica presso l’Università di Torino. Nel 1938 risultò fra i vincitori per un concorso a cattedre di geografia e venne chiamato dapprima presso l’Università di Messina, poi presso quella di Palermo, incarichi che non poté accettare a causa degli incombenti problemi di salute. Ricercatore alpino nel senso più ampio del termine, Monterin, fra il 1914 e il 1939, diede alle stampe una sessantina di pubblicazioni dedicate a diversi campi tematici, spaziando dalla glaciologia alla geologia, alla meteorologia, alla geografia fisica e antropica. Il nucleo prevalente dei suoi lavori fu quello di glaciologia, settore in cui fu attivo anche a livello organizzativo come segretario del Comitato glaciologico italiano dal 1931, direttore del bollettino del medesimo ente dal 1927 e redattore delle relazioni annuali sulle variazioni dei ghiacciai italiani. Le sue indagini sui ghiacciai, in particolare quelli della natia Valle d’Aosta, furono ampie e articolate; ne studiò, infatti, l’evoluzione antica e le trasformazioni recenti e in atto, ricercò le cause climatiche delle loro variazioni, indagò le connessioni fra la dinamica glaciale e la contemporanea dinamica meteorologica, approfondì le relazioni fra i ghiacciai e il loro contributo idrico. Il tutto analizzato sia dal punto di vista teorico sia soprattutto con ricerche sperimentali, raccogliendo direttamente una quantità enorme di dati.  Il primo lavoro innovativo sui ghiacciai, intitolato Il ghiacciaio di Macugnaga dal 1750 al 1922 e pubblicato sul Boll. del Comitato Glaciologico Italiano del 1923, riguardò il ghiacciaio di Macugnaga o del Belvedere, nella Valle Anzasca sul versante piemontese del Monte Rosa. Monterin ricostruì la storia di questo ghiacciaio, uno dei maggiori delle Alpi italiane, basandosi sia sulle descrizioni di viaggiatori e studiosi, sia su carte storiche, sia sui rilievi topografici recenti più attendibili. Di particolare interesse per la moderna glaciologia furono le sue considerazioni sui meccanismi delle variazioni frontali, in particolare sui rapporti fra accumulo nei bacini collettori e avanzata delle fronti. È tuttavia sul ghiacciaio del Lys, affacciato sulla casa natia, che Monterin compì le ricerche che diedero il maggior contributo allo studio delle relazioni fra clima e ghiacciai. (...) Sempre sui ghiacciai del Monte Rosa Monterin organizzò misure sperimentali su due fenomeni di fondamentale importanza, l’ablazione e la condensazione occulta. I risultati dei rilievi sull’ablazione vennero pubblicati sul Boll. del Comitato Glaciologico Italiano del 1931 con il titolo Ricerche sull’ablazione e sul deflusso glaciale nel versante meridionale del Monte Rosa. Di particolare interesse furono le sue osservazioni sulle relazioni lineari fra temperatura e ablazione e sull’annullarsi di quest’ultima con l’altitudine, e l’uso di metodi analitici per ricavare dalle misure di ablazione il deflusso totale del ghiacciaio, problema di notevole importanza anche in campo applicativo. Al secondo tema è dedicato l’articolo Ricerche sul contributo delle condensazioni occulte nei deflussi dei torrenti alpini, pubblicato nel 1939 sul Boll. del Comitato Glaciologico Italiano, in cui affrontò il delicato e non ancora risolto problema della quantificazione del contributo idrico di un ghiacciaio derivante direttamente per condensazione dell’atmosfera. Le difficoltà sperimentali, molto maggiori rispetto alle misure di ablazione, resero sicuramente non del tutto preciso il metodo di Monterin, i cui risultati, tuttavia, aprirono la strada alle moderne tecniche di misura per quanto riguarda i bilanci glaciali basati sui metodi idrologici. La fama di Monterin come ricercatore è legata soprattutto a un articolo che pubblicò nel 1936 sul Boll. del Comitato Glaciologico Italiano, intitolato Il clima delle Alpi ha variato in epoca storica?,che fece di lui il vero iniziatore in campo internazione della climatologia storica. Come ricordò Somigliana nel 1940, lo spunto derivò dal casuale ritrovamento da parte di Monterin, nel 1935, nella regione del ghiacciaio d’Ayas, sempre sul Monte Rosa, di un antico tronco di Pinea excelsa qualche centinaia di metri più in alto del limite del bosco. Ne scaturì la considerazione che questo limite doveva essere molto più elevato nel passato e che anche la quota della linea delle nevi doveva essere più alta. I successivi rilievi portarono alla scoperta di numerosi altri tronchi d’albero a quote elevate, mentre accurate ricerche storiche permisero a Monterin di introdurre due altre testimonianze sulle variazioni storiche del clima alpino: l’esistenza di canali d’irrigazione abbandonati che dovevano servire per captare acque per irrigazione a quote sicuramente superiori rispetto alle fronti dei ghiacciai quali egli poteva osservare, e l’impraticabilità di molti valichi alpini dopo il Medioevo, fatto questo che Monterin attribuì a una successiva avanzata glaciale. Si trattava dell’ultima grande avanzata storica compresa fra la metà del XVI e la metà del XIX secolo che venne poi denominata Little ice age (Piccola età glaciale). Fu sicuramente un lavoro importante, i cui caratteri innovativi vennero riconosciuti a livello internazionale solo qualche decennio più tardi. Emmanuel Le Roy Ladurie, per esempio, scrisse nel 1982 che si trattò di uno studio esemplare, della migliore sintesi nella letteratura glaciologica italiana sulle fluttuazioni storiche, anche se espresse il suo disaccordo sull’ipotesi di Monterin che l’impercorribilità medievale dei valichi alpini fosse da attribuire a una variazione climatica e alla conseguente avanzata glaciale, ritenendo piuttosto che le variazioni di percorribilità fossero determinate da fattori commerciali ed economici. (...)  Le sue ultime ricerche, riguardanti le condensazioni occulte sui ghiacciai del Monte Rosa, furono rese ancora più difficili e impegnative dalla malattia che l’aveva aggredito e che lo condusse alla morte a Torino il 4 gennaio 1940”.

L’ho pubblicato per l’interesse per un lessico così asciutto ed essenziale, che traccia – pensando a certe sgrammaticature attuali – una figura fulgida. Perché parlo dei glaciologi e più in generale degli altri esperti del cambiamento climatico? Perché spetta loro il compito di avere non solo un approccio scientifico, ma anche divulgativo, evitando toni millenaristici e un crescendo di preoccupazione che risulterebbe nocivo alla causa.

Sono ormai convinto che le Regioni alpine dovrebbero rafforzare la loro cooperazione sul tema: gli scenari su quanto avverrà con l’aumento delle temperature è evidente e scientificamente solido. Ora è tempo di scambiarsi buone pratiche e linee di indirizzo comune per capire come reagire per adattarsi in tempo ai cambiamenti che ne deriveranno e la palla finisce infine nel campo di una politica consapevole e mai attendista.