C’è sempre un rovescio della medaglia, nel senso che tutte le situazioni e gli eventi possono essere osservati da diversi punti di vista. Sono ormai anni che ragiono, applicandola alla piccola Valle d’Aosta, sulla gravità della crisi demografica e sui dati da paura che sono stati esplorati pure da uno studio di un demografo importante come Alessandro Rosina.
Non sto a snocciolare le cifre, ormai stranote, di questo gelo che si abbatte sulle culle e che è dovuto ad una miriade di ragioni. Ho più volte segnalato come il tema della crisi demografica - riassunto in modo scientifico da indicatori oggettivi, tipo consistenza della popolazione, fasce di età, fecondità media, indice di vecchiaia, presenza di stranieri utile da capire rispetto al livello di sostituzione, che consente ad una popolazione di riprodursi a prescindere dai comportamenti migratori - non sia affatto presa in considerazione a sufficienza non solo dalla politica cui appartengo che diventa nella faciloneria di certi commentatori responsabile di ogni male, ma più in generale dalla società e delle sue mutazioni profonde nel senso più vasto del termine. Perché quando una tendenza si impianta nei comportamenti e delle mentalità la rimozione è dura e avviene talvolta più per choc che per ragionamenti. È chiaro che sostegni alle famiglie di vario genere servono, ma esiste un male più profondo che spinge molti alla scelta di non avere bambini o di averne solo uno. Questo in soldoni vorrà dire - per fare un esempio concreto - il rischio di definitiva desertificazione di alcune piccoli Comuni della Valle e sarebbe un colpo durissimo per questa nostra porzione di Alpi.
Ma a me colpisce anche l’altra faccia. Ci pensavo in queste ore, in cui sono stato a Verrès, paese dove sono cresciuto e i cui dati della popolazione declinano in questi anni. L’assenza dei bambini è, nel guardare al paese, un fatto ormai fisico: non esiste più in modo visibile il cortile, l’oratorio non ha quei numeri che furono i nostri, il campo sportivo non vede ragazzini un po’ vagabondi come eravamo noi, quando la bicicletta non era uno sport ma il primo esempio di mobilità. Ero all’inaugurazione dell’immobile funzionale e coloratissimo che ospiterà 40 piccoli dell’asilo nido che, esattamente come avviene nella maternità di Aosta dove se sali di un piano ti trovi il reparto di geriatria, ha di fronte la microcomunità per anziani. Luogo ben diverso da quello gioioso con i bambinetti, perché luogo per quasi tutti di un fine vita difficile e triste e chissà che il vocio del parco giochi non sia un’occasione di ricordi e forse di consolazione.
Inutile dire che al calo di presenze dei bambini corrisponde la crescita di vecchi e in generale questo significa un aumento continuo di richieste di servizi, che siano strutture adatte, assistenza varia con la solita croce del personale da trovare. Appartenendo ormai alla categoria per ragioni anagrafiche, considero questa questione un problema che sarà sempre più emergenza con l’allungamento della vita delle generazioni come la mia. È un problema, come dicevo, di organizzazione, di luoghi fisici, di persone formate per l’assistenza. Ed è pure una questione disoldi per il settore pubblico e per il portafoglio delle famiglie.
Anche il generoso Welfare valdostano rischierà il tracollo se non ci si muoverà per tempo sulle possibili forme di accumulo per alimentare i costi sanitari e assistenziali e giace da tempo a questo proposito una norma di attuazione dello Statuto valdostano - che caldeggiai anni fa - e che dovrebbe consentire ai giovani d’oggi di mettere fieno in cascina per il loro futuro.