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31 mag 2024

Dalla dietrologia al mainstream

di Luciano Caveri

Ho sempre pensato che gli anglicismi ormai facciano parte dell’italiano per una logica invasiva, mentre il fenomeno è molto meno evidente in francese, che scova parole sostitutive nella propria lingua per evitare una perdita d’identità.

Su quanto capita in Italia valgono le riflessioni di una decina di anni fa del grande linguista, che ho avuto l’onore di conoscere, Tullio De Mauro: “Non è un fatto nuovo: da alcuni decenni impetuose ondate di anglismi si riversano nell’uso di chi parla e scrive le più varie lingue del mondo. Trent’anni fa, Arrigo Castellani, nel diffondersi di anglismi nell’uso italiano vide e diagnosticò un morbus anglicus, un virus capace di infettare e corrompere la lingua italiana. Ma del fenomeno ormai bisogna dire di più. (…) L’afflusso di parole inglesi dagli anni Ottanta ai nostri ha assunto dimensioni crescenti, uno tsunami anglicus. Le ondate somigliano ormai infatti a un susseguirsi di tsunami...”.

Vetta irraggiungibile in Italia è il Ministero che si è voluto chiamare in epoca di sovranismo meloniano del “Made in Italy”, che sembra quasi uno sberleffo. Molte leggi italiane vedono parole come asset, leasing, flat tax, spending review, caregiver, jobsact e avanti così.

Eppure – io ero ancora deputato – l’apposito Comitato per la legislazione aveva predisposto su iniziativa del Parlamento “La Guida e le Regole e raccomandazioni”, che aveva fornito, tra le altre, indicazioni sull'uso dei termini stranieri nella legislazione. In particolare, il paragrafo 4 prescrive, alla lettera m), di evitare l'uso di termini stranieri, salvo che essi siano entrati nell'uso della lingua italiana e non abbiano, nella lingua italiana, sinonimi di uso corrente. Raccomanda inoltre che i termini stranieri entrati nell'uso della lingua italiana e privi di sinonimi in tale lingua di uso corrente siano usati esclusivamente al singolare e corredati da una definizione. Direi che sono state parole al vento…

Oggi di gran moda esiste una parole che si usa come il prezzemolo. Si tratta di “Mainstream”, termine inglese entrato nel vocabolario italiano che significa letteralmente “corrente principale” e di conseguenza “tendenza dominante” “opinione corrente”.

In realtà ormai la parola, quasi fosse una parolaccia, è entrata in pieno nell’uso del variegato e multiforme mondo del complottismo: quell’insieme di teorie bislacche, fantasie malate, settarismo deteriore che avvelena il Web. Su piccolometafisico si spiega come il complottista “identifica con mainstream, innanzitutto, una forma di pensiero dominante, inteso chiaramente in senso dispregiativo. Un’impostazione che riguarderebbe vari aspetti del sociale, ma in particolar modo quello dell’informazione e della cultura. Vengono poi declinati due punti: 1) innanzitutto si tratta di un qualcosa appositamente creato per la ‘massa’ (anche qui intesa chiaramente in maniera dispregiativa), un prodotto che privilegi la quantità invece che la qualità. In tal senso il complottista dà per assodato che un prodotto o un’informazione di qualità non possa per definizione appartenere ad un’ampia platea; 2) Il prodotto mainstream corrisponde ad una precisa intenzione sottostante: viene ideato con l’intento palese di abbindolare, dissimulare, in una parola ‘addormentare’ i cervelli e le coscienze. Le ragioni alla base, ovviamente, sarebbero sempre le stesse (potere, denaro, controllo ecc)”.

Insomma: ormai questo mainstream fa parte di una logica militante e spesso delirante.

Antonio Sgobba in un interessante articolo su ilPost spiega chi inventò un termine in italiano che per anni ha dominato la scena, vale a dire “dietrologia”: “A coniare il neologismo fu il giornalista Luca Goldoni: troviamo la prima occorrenza in un articolo per la terza pagina del Corriere della Sera, pubblicato il 10 aprile 1974 (ripreso poi nel libro È successo qualcosa? Storie e preistorie di un anno). Goldoni irrideva la tendenza, che sembrava diventare più insistente proprio in quel periodo, per cui gli italiani avevano preso a domandarsi per ogni circostanza «che cosa c’è dietro?”.

Partito in sordina il termine dilagò. Lo ricorda con una citazione lo stesso Sgobba: “Carlo Ginzburg commentò così quei fatti nel suo libro del 1991, Il giudice e lo storico: «In Italia il termine “complotto” viene usato da un decennio circa in contesti per lo più negativi: quasi sempre si parla di complotti per sostenere che non esistono, o che esistono solo nella fantasia sbrigliata dei “dietrologi” (un termine, di conio più recente, dalle connotazioni ancora più chiaramente negative). Ora, non c’è dubbio che a proposito di complotti e “dietrologie” sia stata scritta, sempre e dovunque, una gran quantità di sciocchezze, talvolta con conseguenze funeste. Eppure non si può negare che i complotti esistono»”.

Ora si passa all’inglese e mainstream serve da stampella…anglofona.