C’è stata un’epoca da bambino in cui seguivo il calcio. Collezionare le figurine era una modalità per socializzare e ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto” era sentire voci dagli stadi che ti aiutavano persino in Geografia.
Gli stranieri che giocavano nel campionato italiano erano gli oriundi, figli veri o presunti di immigrati italiani. Oggi il calcio è anzitutto a pagamento per chi non vada a seguirlo dal vivo e le partite importanti trasformano gli impianti sportivi in fortini presidiati dalle forze dell’ordine. Ma soprattutto le squadre sono delle vere e proprie Legioni Straniere con giocatori provenienti da Paesi di tutto il mondo senza alcun legame vero con le città dove giocano. Le star del calcio sono dei nababbi che occupano la cronaca rosa e non solo quella sportiva.
Resta l’impressione, ben supportata da scandali periodici, che resti un mondo opaco in cui girano troppi soldi e la emersione e la legalizzazione dei sistemi di scommesse mostrano ombre lunghe sul rischio di compravendite di partite. Questo non sembra riflettersi troppo sulla fede calcistica con tifoserie che mostrano i volti dell’Italia meglio di molte altre cose con bande organizzate che alla fine con lo sport e i suoi famosi valori c’entrano poco.
Che il calcio sia un business con molti lati oscuri, ad esempio in tema di fiscalità dubbia e di indebitamenti mostruosi, viene dimostrato dal fenomeno che leggo su Il Foglio in un articolo di Fulvio Paglialunga, che mostra come il calcio italiano stia diventando terreno di razzia di società estere o di milionari strambi che arrivano da altrove rispetto alle radici locali delle singole squadre di calcio.
Scrive il giornalista: “L’ultima a varcare la porta è stata il Venezia. Buongiorno, Serie A: siamo americani, c’è posto? Prego, ce ne sono già altri. Anzi, dividiamoci così: le squadre con proprietà italiana da una parte, quelle con proprietà straniera dall’altra, dieci di qua, dieci di là. Ecco, la novità è questa: nel prossimo campionato la metà delle società farà riferimento a padroni che vengono da oltre confine, quasi tutti americani, e che all’estero hanno la loro testa e qui provano a mettere qualche volta un pezzo di cuore, ma più spesso un bel po’ di interessi. Cambia il vento e pure noi, quelli che una volta venivano definiti “ricchi scemi” – proprietari di club con molto denaro e non moltissimi strumenti intellettuali, ma veri e propri padroni delle squadre – hanno salutato molti anni fa, le gestioni padronali delle società sono un numero ristretto (sono rimasti De Laurentiis, Lotito e Cairo a gestire quasi in prima persona) e l’evoluzione in una forma spinta di business ha soppiantato il concetto di frontiera, buono o cattivo che sia. Quindi, arrivano gli altri, che sono la metà dei nostri”.
Questa storia di farsi razziare settori economici vari non è una novità e lo si vede, scorrendo i giornali ogni giorno, con acquisizioni nel settore industriale, spogliato nel tempo di asset decisivi nell’elettronica, nel siderurgico, nel tessile, nella chimica, nell’alimentare e cito alcuni comparti con casi di scuola clamorosi. Un’Italia terra di conquista in barba a tutta la retorica nazionalista e sovranista che ci siamo dovuti sorbire anche nel corso di questa campagna elettorale per le Europee. Fra il dire e il fare ci sta di mezzo la triste realtà di un Paese depauperato che deve tenersi stratta l’Unione europea, senza la quale scivoleremmo lentamente verso le coste africane.
L’articolo annota caso di svendita calcistica: “Arriva il Venezia del presidente Duncan Niederauer, ex capo di Wall Street, una carriera in Goldman Sachs, che controlla la società con la Vfc Newco 2020, compagine di investitori composta da sei soci, cinque statunitensi e Ivan Cordoba, ex difensore colombiano dell’inter. Un americano (come quasi tutti gli altri) che investe nello sport dopo aver accumulato un patrimonio stimato intorno agli 1,3 miliardi. Innamorato di Venezia, ha deciso di fare grande la squadra, sentirla sua (spesso lo si trova in curva, in tuta sociale e con una birra in mano), internazionalizzarla (più del 90 per cento del merchandising è venduto tra Stati Uniti, Corea, Regno Unito, Germania, Giappone), pur senza conoscere, almeno inizialmente, il calcio”.
E ancora: “Poco prima del Venezia, in Serie A era arrivato il Como dei fratelli Budi e Bambang Hartono, indonesiani tra i più ricchi del mondo (48 miliardi di patrimonio) che sono partiti dalla D, hanno allargato la base (tra i soci del club c’è anche Thierry Henry) e coltivano sogni di grandezza: già riportare la squadra in paradiso dopo ventuno anni in realtà lo è. Prima ancora delle due c’è stato il Parma, che di storie di proprietari spericolati della società può raccontarne qualcuna, ma che ora ha una bandiera a stelle e strisce sempre pronta per ringraziare Kyle Krause, proprietario dal 2020 del club e nel quale investe il suo patrimonio frutto della catena di minimarket ereditata dalla famiglia e della successiva diversificazione del business che ha permesso la creazione di un impero, nel quale lo sport non è settore secondario”. È più avanti: “L’inter ha da poco cambiato bandiera: il fondo americano Oaktree è subentrato alla famiglia Zhang, impossibilitata a restituire il maxi debito. Per italianizzarsi, poi, il fondo ha subito dato la presidenza a Marotta, anche perché il calcio è un investimento, la gestione meglio affidarla. Come l’inter, è straniero il Milan, di proprietà di un altro fondo, Redbird. E anche l’Atalanta, che con la famiglia Percassi sembra italianissima, è al 55 per cento di Joseph Pagliuca, di intuibili origini italiane, a capo di una cordata che è proprietaria anche dei Boston Celtics. E il Bologna, che quest’anno nel campionato italiano ha incantato, ha Joey Saputo, figlio di un emigrato siciliano, come presidente: vive facendo spola tra il Canada e l’Emilia”.
L’elenco potrebbe continuare a conferma di un mondo calcistico che non è avvolto da ideali di cosmopolitismo ma di affarismo al limitare delle regole del mercato. Fa rabbia chi gira sulla giostra di un Luna Park pieno di luci e suoni allettanti, ma poi appare in molti casi più vicino alla bancarotta che a chissà quale spettacolo gioioso.