Antoine Carrel, erede del celebre Jean-Antoine Carrel, cui si deve la prima salita nel 1865 del versante italiano del Cervino (ma due giorni prima arrivò in vetta dal versante svizzero l’inglese Edward Whymper), mi propose molti anni fa di salire con lui sulla Gran Becca.
Varie circostanze posticiparono quella che per me sarebbe stata un’impresa e me ne dolgo moltissimo, specie perché negli anni ho avuto occasione di ruotare attorno a questa montagna-simbolo con l’elicottero e in aereo e goderne a pieno di questo prisma di roccia africana. Resta l’amaro in bocca che il mio solo 4000, più basso del Cervino, sia stato il Castore sul Monte Rosa.
In questi anni, mi sono occupato del rifacimento della Capanna Carrel, dedicata proprio al conquistatore numero due del Cervino
Faceva parte di un Interreg Italia-Svizzera e il progetto ha avuto alcune traversie in quell’ambito e me ne sono occupato per reperire altri fondi che ne consentissero il rifacimento. Ci sono stati ulteriori problemi risolti riguardanti un necessario spostamento più in basso in zona meno a rischio per caduta sassi e riguardo a questioni confinarie con la Svizzera. In queste ore ho visitato il cantiere e sono entusiasta dei lavori, che spero si concludano - tempo permettendo - entro fine estate e ringrazio le imprese che lavorano in condizioni eroiche, specie nei giorni di maltempo e un cantiere a 3800 metri fa tremare i polsi.
Mi fa piacere che un giornalista e scrittore della montagna come Enrico Camanni ne abbia scritto su La Stampa nel quadro di una riflessione in una serie di articoli su quei luoghi magici che sono rifugi e bivacchi alpini.
Scrive Camanni: “Nell’epoca dell’intelligenza artificiale il rifugio resta un avamposto eccezionale, miracolosamente sopravvissuto al disincanto globale. Sarà che si sale a piedi mischiando il sudore alla curiosità; sarà per quel nome arcaico, che non si sa come e non si capisce perché, funziona anche per le spavalde edilizie contemporanee; sarà perché i rifugi ci aspettano sempre nei luoghi alti e panoramici, i più lontani dall’inquinamento luminoso delle città e i più vicini alla luce delle stelle”.
Aggiunge con un tocco di giusto romanticismo, che si sposa con l’epoca storica di molti rifugi: “E poi c’è il libro degli ospiti, il breviario cui si confidano le ansie e le speranze alla vigilia della scalata. Non è solo retorica: l’abitudine che induce gli alpinisti ad affidare alle pagine di un quaderno pubblico i sentimenti più intimi, con parole non di rado enfatiche e aggettivi spesso fuori misura, va letta come una confessione prima della prova, un rito di scaramantica sincerità, forse una manifestazione di umiltà. Ecco alcune frasi rubate ai vecchi libri delle capanna Amedeo di Savoia e Jean-Antoine Carrel, sulla via italiana al Cervino: «La vita è ascesa e conquista» (don Luigi Giordani, 1959); «Gli angeli del Cervino siano guida a chi sale, protezione a chi scende, sostegno a chi cade» (Renato Casalicchio, 1969); «Se la montagna non esistesse, la mia vita non avrebbe alcun senso» (Mario, 1981); «Sono molto vecchio e ancora più stanco» (Jean-Pierre Etienne, 1985). Nell’intimità del rifugio la fragilità è palpabile, ma il vento resta fuori. L’universo è ridotto a pochi metri abitati, a loro modo sacri, isolati dal vuoto. Il rifugio è un’isola al riparo dall’immensità”.
La prima Capanna Carrel fu costruita nel 1909 proprio per supportare gli alpinisti impegnati nella salita lungo la cresta del Leone. Nel corso degli anni, la struttura è stata più volte rinnovata per rispondere alle esigenze sempre maggiori degli scalatori, mantenendo però il suo spirito spartano e autentico. Ora, rispetto alla più recente costruzione del 1969, si cambia volto nel segno di una logica spartana ma attenta alle innovazioni costruttive e tecnologiche.
Spiega Camanni nel suo articolo: “Sarà un bivacco come il vecchio, cioè sorvegliato ma non custodito. Laurent Nicoletta, presidente della Società delle Guide, precisa che la capanna manterrà il carattere alpinistico e non si trasformerà in un rifugio turistico. Garantirà 25 comodi posti letto a 3.830 metri di quota, forse qualcuno in più in caso di bisogno. Insomma ci passerà un mucchio di gente e si incroceranno lingue di ogni dove, ma ogni ospite sarà responsabile di se stesso e della sua avventura.
Nido d’aquila è la giusta definizione per un bivacco come quello appeso alla cresta del Leone sulla via normale del Cervino, un percorso esposto e impegnativo nonostante le corde fisse. Ma la vertigine resterà fuori dal rifugio: come per prodigio, chiudendo la porta gli alpinisti si sentiranno al sicuro”.
Per me visitare la costruzione che procede con rapidità è stata una vera emozione, cominciando però dal vecchio rifugio, genius loci dell’alpinismo e di tante pagine della sua storia.
Per poi scendere verso i lavori, condotti da personale specializzato e coraggioso, che vive su di una sorta di balconata mozzafiato e dal cielo, forse, tanti alpinisti che da lì sono passati seguono le loro gesta per dare alla via italiana un luogo di accoglienza nella buona e nella cattiva sorte.