Assumersi le responsabilità. Detto così suona banale e quasi scontato. Eppure, per chi abbia fatto politica e amministrazione, la questione è sempre più decisiva per l’efficacia del settore pubblico.
Anche nel lessico corrente, nel caso della Valle d’Aosta, esiste una specie di zona grigia.
La Valle d’Aosta è una Regione a Statuto speciale. Uno status sancito nell’articolo 116 della Costituzione. Tra parentesi sono fiero di avere aggiunto, nella riforma del 2001, anche la dizione bilingue, Vallée d’Aoste, per segnare un elemento non solo simbolico.
Ecco perché mi imbestialisco quando si usa l’acronimo RAVA (Regione autonoma Valle d’Aosta) che suona come una stupida diminutio, per non dire di chi – anche intervenendo in occasioni pubbliche – dice “parlo a nome dell’Amministrazione regionale”. Regione autonoma, porco cane!
L’ottenimento di questa definizione è impastato di lacrime e sangue, resistenza al centralismo e resilienza di fronte alle difficoltà e dunque chi banalizza sceglie un comportamento indegno.
Ma torniamo alla responsabilità, che è tema molto delicato. Che può avere due declinazioni: senso di responsabilità e assumersi le responsabilità, che in fondo sono due gambe che servono per far camminare le cose. Verrebbe da dire, in sintesi, che siamo responsabili sia di quello che facciamo, ma anche di quello che non facciamo.
Nelle mia esperienze passate e più recenti questo trovo sia il grande discrimine. Ho trovato in politica chi traccheggia e lascia marcire i dossier. Così come ho trovato chi, invece, funziona in maniera straordinaria e cioè rispetto ad un problema gioca solo di rimbalzo con chi le decisioni le assume. Si tratta di quella parte di opposizione che non propone mai, ma critica quanto fatto da chi le responsabilità se l’è prese.
Facile far così! Tutto brutto, tutto sbagliato! Noi – questo l’assunto dei criticoni – avremmo fatto meglio, ma poi le controproposte languono e si usano strumenti di straordinaria efficacia come la demagogia e il populismo. Ha scritto, con evidente dolore per distinguere la bontà del ragionamento politico da ragionamenti solamente strumentali, Hannah Arendt: “La propaganda non è mai diretta a persuadere gli scettici, ma a mobilitare gli ignoranti”.
Scava ancor di più Umberto Eco: “Il populismo si nutre della semplificazione e dell’ignoranza, trasformando problemi complessi in slogan”.
Certo la responsabilità deve essere una bussola anche per i dirigenti. Nel diritto comunitario europeo (o diritto dell’Unione Europea), recepito anche dall’ordinamento italiano, la distinzione tra le responsabilità dei politici e dei dirigenti si basa principalmente sul principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni di gestione amministrativa, che trova fondamento nei trattati dell’UE e nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Ho potuto constatare nel tempo come ci siano coloro che, in questa staffetta fra Politica e Amministrazione, ci siano dirigenti – lo dico senza generalizzare, ma per dire di pecore nere – che si rifugiano dietro ritardi e dilazioni. Su tutti grava poi la vecchia questione della divisione dei poteri e spesso la Giustizia – i casi sono evidenti – è intervenuta a gamba tesa, creando una Spada di Damocle che diventa per alcuni alibi per non fare. E certo non si discute la necessità di vigilanza e di repressione, ma spesso vien da dire “modus in rebus”. Un vecchio politico, che firmò la mia Légion d’Honneur da Presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, rendeva l’idea della responsabilità in modo politicamente scorretto o, se volete, dal tocco maschilista oggi sanzionabile: “On greffe de tout aujourd’hui, des reins, des bras, un cœur. Saufs les couilles. Par manque de donneur”.
Resta da capire, strappato un sorriso per la citazione, se ci voglia coraggio per avere responsabilità o se sia la responsabilità che genera il coraggio.
Temo che in fondo sia tautologia…